Linea d'ombra - anno XII - n. 96 - settembre 1994

6 Il ALIARICCA felicità pubblica e privata che non consistano nella ricchezza materiale, non può, obiettivamente, accettare rigidi vincoli etici e giuridici. Da questo punto di vista siamo anche in grado di giudicare meglio quanto è accaduto in Italia nel periodo alle nostre spalle; e di liquidare l'idea ingenua di una indolore rivoluzione etica con i giudici di Mani Pulite per avanguardia e la rivolta antipartitocratica come contenuto. Se unarivoluzionec' è stata, è quella antropologica iniziata negli anni Ottanta che dopo le mezze vittorie e le ritirate craxiane, è oggi a un passo dal trionfo. In questo senso, l'esplosione di Tangentopoli non è stato altro che l'accesso di febbre che segnalava la profondità del cambiamento e la reazione di rigetto che non poteva non suscitare in settori della società anche rilevanti ma inevitabilmente minoritari, ossia incapaci di aggregare uno stabile consenso di massa. Esito, credo, non provvisorio. All'appropriazione e all'esaltazione di quella eredità, la destra al governo sta affiancando altri elementi sparsi, disomogenei, a volte improvvisati e più o meno innovativi, che però costituiscono l'accumulo necessario di messaggi e valori da cui sta già nascendo una nuova cultura di massa. L'idea progressista che tutto questo fosse un deja vu, che si trattasse dell'ultima incarnazione del neoliberismo alla Thatcher o alla Reagan, anacronistica e perciò stesso meno pericolosa, è frutto di un errore e un'illusione. L'illusione sta nel fatto che il neoliberalismo degli anni Ottanta non è una parentesi storica o una reazione effimera, ma è il segno dell'emergere potente di nuovi valori e nuove culture, prodotte da trasformazioni materiali e mentali formidabili, destinate a determinare ilnuovo terreno delle contraddizioni e dei conflitti; ma che da subito spostano nettamente i rapporti di forza tra classi, gruppi, popoli e culture diverse. L'errore più grave è stato nell'incapacità di articolare analisi e risposte al fatto che in Italia avveniva qualcosa di diverso e innovativo rispetto alloscenario neoliberista. Non so se, come è stato scritto fuori d'Italia, "Berlusconi sarà il Kerenskij del nuovo fascismo europeo" (perché Kerenskij, poi, e non direttamente Lenin?). Certo, "il colpo di stato mediatico" (altra definizione nata fuori dai confini nazionali) inaugura un'era nuova che però - secondo uno schema che vale per molti elementi della nuova cultura di destra - è innanzitutto il compimento, la realizzazione di quello che gli anni Ottanta annunciavano. Già Kurt Vonnegut commentava l'elezione di Reagan con una domanda spettacolare: "Chi chiamereste a girare una scena in cui l'eroe guida una slitta sotto una finta tempesta di neve?". Oggi in Italia quel processo si realizza. per così dire materializzandosi; se Reagan era il simulacro dell'America degli anni Ottanta, Berlusconi è la realtà dell'Italia a metà degli anni Novanta. La cultura che incarna può attirare consensi non solo di immagine come a marzo - in quanto esibisce interessi e valori ampiamente diffusi e popolari. Anche perché poco complicati, in grado di determinare facili identificazioni: uno Stato (un pubblico) meno esigente, non solo fiscalmente ma anche dal punto di vista delle leggi e della morale, della richiesta cioè di comportamenti compatibili dal punto di vista collettivo; perbenismo moralista, invece, su alcuni principi, anche per compensare sul terreno dell'ordine quella mancanza di sicurezza prodotta dalla deregulation economica, garanzia forte di ogni dimensione privata e familiare, a cominciare dalla proprietà in senso lato (compresi i figli e la loro educazione, per esempio); nessun arretramento, fin quando è possibile, sul terreno dei consumi e degli standard di vita, comunqi1e, in cambio, profluvio di buoni sentimenti, adeguatamente spettacolarizzati. E così via. Il sogno miracoloso additato da Berlusconi in campagna elettorale non è in fondo molto più di questa miscela, convenzionale e innovativa insieme. Tanto funzionale, comunque, da sembrare ricalcata sulla smarrita Italia di questa fine secolo; al punto che, quando l'epicentro onirico e delirante del messaggio elettorale, il mitico milione di posti di lavoro, lentamente svanirà, le ripercussioni sulla fiducia e l'identificazione di massa non saranno immense. Al cuore di questa miscela c'è un motivo che sintetizza tutti gli altri, che li riassume e li rappresenta simbolicamente: è il nodo del denaro. La centralità di questo valore sembra caratterizzare tutte le proposte e le idee del governo, orienta più o meno visibilmente le sue scelte e spiega le sue iniziative, soprattutto quelle più significative e controverse che si sono già accennate. Ma è anche l'unico tratto culturalmente unificante della nuova classe dirigente (per rendersene conto, basta leggere le biografie degli eletti di Forza Italia, incredibilmente uniformi da un unico punto di vista: quello del censo). Non che questa cultura del denaro sia un'esclusiva del nuovo governo e una novità assoluta nella storia italiana. Nonostante capiti ancora di leggere banalità e deformazioni sulla diffidenza verso la ricchezza materiale delle principali culture italiane, va ricordato che la sinistra ha in realtà sofferto una imbarazzante subalternità a quei valori; dato che spiega il regolare fallimento di ogni esperienza alternativa sul piano economico, produttivo, dei comportamenti e dei consumi, dai grandi progetti sindacali di partecipazion_ee cogestione alla minima esperienza comunitaria. Per quanto riguarda poi la Chiesa Cattolica, si potrebbe sommessamente ricordare che ha affrontato il piùgrandescontroescismadella sua storia per ribadire il proprio diritto a monetizzare il sacro: ma anche restringendo la prospettiva, la storia dei cattolici italiani del dopoguerra, dall'immobiliare allo lor, è tutto un intreccio di politica e affari in nome del potere e del denaro. Anche su questo piano la novità è dunque relativa. Ma questo è un motivo di forza e non di debolezza per la nuova cultura di destra, perché lega l'emergere di nuovi comportamenti alla profondità del carattere e dell'esperienza storica degli italiani. E permette alla discontinuità politica di trarre forza dalla continuità morale e culturale. Consente, per esempio, al motivo della ricchezza di essere oggi così vistosamente esibito. E anche se la novità fosse solo questa - che cioè gli italiani in passato segretamente ossessionati dal possesso di beni e denaro oggi si sentano liberi di manifestare questa inclinazione- il mutamento sarebbe culturalmente decisivo. Così I' assolutamente vecchio e il moderatamente nuovo che senza sforzo convivono nella cultura di destra appaiono egualmente significativi e pericolosi. Può darsi che il futuro economico della nostra società non consenta a tutti gli italiani di esaudire questa aspirazione alla ricchezza, come invece è avvenuto negli anni Ottanta, nei modi diseguali ma diffusi che conosciamo. Ma se verrà davvero il momento delle rotture e dei sacrifici, c'è un altro elemento caratterizzante la nuova cultura di destra che è pronto ad affermarsi come centrale e che già si manifesta nella più volte dichiarata avversione per quell'insieme di pratiche di governo e di consenso che si riassumono nella parola mediazione. Qui la novità culturale e politica sarebbe davvero significativa. In Italia più che altrove, governare ha significato mediare, cercare la composizione tra interessi differenti, conciliare attese e rivendicazioni opposte, garantire la coesistenza di diversi valori. Ora, non solo la cultura autoritaria tradizionale, ma anche quella aziendalista e quella liberalpopulista che convivono nella coalizione di governo sono costituzionalmente aliene da quella pratica - dei cui infelici esiti non importa qui discutere. C'è chi vede nella non volontà a perpetuare questa ambigua virtù un limite e una debolezza della nuova cultura di governo. Ma a parte che la figura di Berlusconi sembra volersi porre proprio come elemento di rassicurazione generale, in una sorta di mediazione

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