Linea d'ombra - anno XII - n. 96 - settembre 1994

VEDERE,LEGGERE,ASCOLTARE 65 Fotodi LeonardoCéndamo/Effigie. lista e scrittore lombardo. E giusto sarebbe periodizzare nel- !' attività professionale di Brera. Quando Brera comincia, dopo la Liberazione, ad occuparsi professionalmente di sport, il giornalismo sportivo scontava gli effetti della retorica fascista, dello sport usato come strumento di propaganda. Questo il commento di Bruno Roghi, il capofila del giornalismo sportivo italiano, per la vittoria di Fausto Coppi nel Giro d'Italia del 1940: "È un avvenimento che va oltre le misure dell'episodio tecnico, della vicenda sportiva. Ha un suo suono segreto, un suo medianico significato, una S'llafresca poesia. Il Giro d'Italia non è stato vinto da un corridore del mestiere, rotto a tutte le esperienze, a tutte le esigenze e a tutte le malizie della rude carriera. È stato vinto da un ragazzo di vent'anni. È stato vinto da un soldatino in breve licenza". Leggendo un qualunque commento, una qualunque cronaca di Brera appare evidente lo scarto con la generazione di cronisti sportivi che lo ha preceduto. Due sono le fondamentali novità che Brera apporta al giornalismo sportivo: la prima, quella solitamente meno celebrata, è l'attenzione all'aspetto tecnico nella cronaca sportiva - esemplare in questo senso l'interpretazione del mondiale di calcio del 1954- la cui conseguenza è la nascita della critica sportiva. Basterà ricordare l'infinita polemica che oppose Brera, teorico del gioco all'italiana, alla scuola meridionale dei Palumbo, dei Ghirelli, sostenitori di un football più offensivo. La seconda è l'innovazione linguistica. Mancando una tradizioneitalianadiracconto sportivo, di reportage, Brera, come tutta la generazione di giornalisti e scrittori suoi coetanei, finalmente libera dall'influsso dannunziano, guarda alla letteratura americana. Mura fa i nomi di Ring Lardner e Damon Runyon, ma l'influenza più evidente, mi pare, è quella di Hemingway. Se si leggono gli splendidi racconti di caccia e pesca raccolti in questo volume, viene naturale accostarli ai 49 racconti, alle storie di Nick Adams. Hemingway e noi si intitola significativamente un articolo di Italo Calvino, del 1954, nel quale si fanno i conti con il mito attivistico, la suggestione, poetica e politica che esercitò lo scrittore americano eletto a proprio maestro dalla generazione nata attorno al 1920, stufa di tutti i vincoli imposti dalla tradizione letteraria italiana, così poco narrativa.L'influenza di Hemingway è decisiva per la generazione di romanzieri che si forma nella temperie neorealista, ma lo è anche per quei giornalisti scrittori, come Brèra, che si posero il problema di come raccontare l'Italia che esce dalle màcerie della guerra. Credo si debba concordare con Mengaldo quando afferma che Brera ha raggiunto il massimo dello sperimentalismo linguistico negli annì Sessanta (Leopardi usato per descrivere un gol di Pelé). È probabilmente il miglior Brera, quello che scrive su "Il Giorno" di Italo Pietra al fianco di un gruppo di giovani che stanno rinnovando il giornalismo italiano: Bocca, Arbasino, Forcella, Murialdi (caporedattore), laAspesi, Stajano, per fare qualche nome. In quegli anni Brera prende pieno possesso dei propri mezzi espressi vi e comprende che attraverso lo sport (calcio, atletica, ciclismo, pugilato) si può raccontare una società che sta cambiando. Brera diviene un caso nel giornalismo italiano. Quando escono i suoi pezzi "Il Giorno" vende decine di migliaia di copie in più. E allora il giornalismo sportivo gli diventa un po' stretto, ambisce al riconoscimento letterario, ma al tempo stesso è orgoglioso di essere un outsider (si veda in questo volume il ricordo di Quasimodo, pieno di acrimonia per la società letteraria italiana). Nipote di Gadda? Così risponde Brera: "Qualche critico minchione, interessandosi alle mie nugae, ha addirittura trovato che gli son nipote. Balle". Respingendo la definizione di conio arbasiniano, Brera ha coscienza dei propri limiti: se infatti ha molto orecchio per il parlato, è bravissimo nel rifare i dialetti, nel riuso della lingua aulica in chiave ironica, nell'invenzione di neologismi, la lingua tuttavia non si organizza in un sistema come in Gadda. Negli ultimi anni, anche se sono da ricordare i bellissimi epicedi, la prosa di Brera diventa più di maniera; il teatrino del mondo del calcio, scomparsi alcuni prim'attori come Nereo Rocco, meno briUante. Brera si monumentalizza, elegge a sistema la biostoria per spiegare virtù e difetti dei popoli. Viene anche accusato di strisciante razzismo. Come mostra il racconto del percorso dell'eretico Seniga, da braccio destro di Secchia a transfuga dal Pci togliattiano, Brera è a suo agio anche sul terreno della politica, palesando doti di reporter superiori a più conclamati campioni di giornalismo. Ci si può chiedere allora perché il giornalista lombardo restò nel giornalismo sportivo Due, secondo me, le ragioni. La prima è che gli fu sempre più chiara, col passare degli anni, l'importanza che lo sport ha assunto nel nostro secolo come chiave di lettura dell'intera società. La seconda, è che, come ha magistralmente scritto Roland Barthes a proposito del Tour de France, lo spazio dell'epopea, del racconto epico appartiene, nel Novecento, quasi solamente alla narrazione sportiva.

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