62 VEDERE,LEGGERE,ASCOLTARE Foto di Giovanni Giovannetti. elementari, senza condirle necessariamente con spezie troppo sofisticate (in una di queste pagine si prendono le distanze da Umberto Eco che ironizza, con eccessiva disinvoltura, sulle locuzioni standardizzate). E anzi in questo nudo pathos della verità, in questa serissima tensione verso l'autentico e insofferenza per la retorica (il rifiuto adolescente a comporre una dichiarazione d'amore non del tutto sincera) mi pare di scorgere un carattere poco "italiano" dell'autore (per altri versi così immerso in una sensualità terrestre e mediterranea), la sua resistenza alla recita, sontuosa e appassionata, della verità, che pure ci viene incontro da una grande tradizione di civiltà. E a questo vorrei aggiungere anche un'attitudine apparentemente contradditoria di Pampaloni: da una parte si mostra infinitamenteindulgente con gli altri, incline cattolicamente a perdonare, a capire ciò che è umano, troppo umano, dall'altra riserva per sé una inaspettata severità di timbro quasi giansenista, il rifiuto di facili consolazioni. All'attuale diffusione del cristianesimo del Figlio (l'immagine fraterna di Cristo sofferente in croce) l'autore dichiara di preferire la meno "decadente" e meno consolatoria religione del Padre: il silenzio imperscrutabile di Dio si apre, ambiguamente, a possibilità opposte, così come le molte ingiustizie di cui è disseminata la vita restano tali, non riscattate da nulla. Non è possibile riassumere pagine così fitte e, come ho detto, di composizione rapsodica, ineguale. Eppure mi accorgo che parlare di Pampaloni significa parlare soprattutto del suo stile, molto più che dei contenuti, delle singole prese di posizione, del quoziente (alto)di narratività, della moledi considerazioni psico-morali che animano la sua pagina. E per stile intendo non solo una qualità della scrittura (educatissima, civile, comunicativa, sorvegliata - del resto la parola è sempre stata, come leggiamo in queste pagine, la sua arma preferita, il suo principale strumento di seduzione dell'altro sesso...) ma direi uno stile intellettuale, un tono e una misura oggi assai rari. Mi sembra che Pampaloni resista, forse involontariamente, alla tentazione di due stili oggi assai diffusi, dominanti (ma entrambi un po' artificiosi), soprattutto nel genere diaristico, e soprattutto in autori diciamo appartenenti all'area "progressista": uno stile lirico (tendenzialmente autobiografico), fatto di trepide vibrazioni dell'anima, di esibizione di una interiorità dolente, signorile (diciamo, e fatte salve le differenze, dal diario di Pintor agli aforismi di Asor Rosa e ai ricordi personali di Scalfari); e uno stile satirico, di sberleffo cinico, ribaldo, di aggressione beffarda, allo scopo di mettersi al riparo, di non farsi mai cogliere in fallo di ingenuità (un'attitudine presente in innumerevoli libri). Pampaloni ha invece raggiunto (o trovato) uno stile denso ma antiretorico, fatto di passione e manzoniana moderazione, di malinconia e serena disperazione, di humanitas e di miracolosa semplicità: prodigiosamente capace di dire sobriamente le cose lievi e le cose gravi, le avventure boccaccesche e i piccoli episodi di gusto quasi deamicisiano (la morte del cane lupo che riconcilia i due amici), il peso del rimorso e la incombenza della morte, l'infelicità amorosa e lo sbocciare di un affetto vero, la rapinosa ebbrezza dei sensi e la misteriosa sintonia con l'universo, con il paesaggio naturale. Nei Giorni infuga il sentimento preponderante è la malinconia: "malinconia leopardiana", "vocazione malinconica", "malinconia della vecchiaia", il "ricordo più malinconico di mio padre", "una piccola città malinconica". E in special modo quella definizione che l'autore trova nel linguaggio degli psichiatri, e che applica ad un fulminante e veridico autoritratto: "situazione mista: felice e malinconico". Una associazione questa, meno peregrina di quanto sembri. Nella malinconia, per quanto mescolata qui ad una buona dose di autoironia (il "sospetto di mediocrità su di sé", il valore terapeutico della noia per ridimensionare un po' i propri progetti) si insinua infatti qualcosa di vago, una allusione ali' altro, la intenerita e sconsolata nostalgia di un altrove. Insomma: utopia (per quanto impolitica, non ben decifrabile) e disincanto. Uno stato d'animo lontano dalla nevrosi contemporanea, che è tristezza non vaga, ma anzi legata perlopiù a desideri precisi inappagati, costretta dunque a rimuovere incessantemente (e che esclude, direi, ogni forma di felicità). · Vorrei concludere sottolineando ancora una volta la felice "inaffidabilità" di Pampaloni, la sua eccentricità a qualsiasi schema codificato e a qualsiasi chiesa, e dunque la sua fatale inutilizzabilità politica. A questo proposito, in una delle pagine del libro si cita un risentito articolo di Terenzi ("autorevole manager della stampa di sinistra") contro l'allora neonato "Giornale" di Montanelli, cui l'autore collaborò subito in qualità di critico letterario militante. L'articolo di Terenzi, pieno di insulti e offese si chiude con una citazione da Ammiato Marcellino (destinata per l'appunto a quelli del "Giornale") che a Pampaloni sembra di grande verità: "Non è auspicabile averli né come amici né come nemici". Qui l'autore pensa soprattutto a se stesso: guardato con diffidenza e con sospetto dalla sinistra, ma anche giudicato stravagante, irregolare, dalla destra; cattolico senza Dio, libertario e non-violento; partecipe a pieno titolo della Società Letteraria ma anche battitore libero, lettore imprevedibile. In certo modo il destino dell'autore lo imparenta con quello di alcuni intellettuali eretici di questo secolo, sfuggenti e inclassificabili, e in questo senso lo avvicina (forse paradossalmente) a una sensibilità contemporanea, a quanti oggi hanno a cuore una critica non moderata della cultura.
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