Linea d'ombra - anno XII - n. 96 - settembre 1994

,, , VEDERE,LEGGEREA, SCOLTARE =• _ , 57 Nella letteratura troviamo così tutta una fitta, ricorrente serie di "trasgressioni" rispetto a quell'imperativo razionale che di volta in volta assegna una massa crescente di oggetti alle categorie dell'inutile, dell'insensato: tutti gli oggetti "moralmente o razionalmente rifiutati" che invece la letteratura sembra generosamente (ripeto: fraternamente, maternamente) accogliere nelle sue "immagini di cose fisiche (...) via via designate come inutili, invecchiate, insolite, decadute, desuete, derelitte" (p. 9). Come si vede, in questo libro lo stesso linguaggio critico procede spesso per elenchi (alla definizione concettuale tende a sostituirsi l'enumerazione, che definisce in modo più aperto, o per serie e per accumulo). Qualche riga sotto troviamo un altro elenco piuttosto esauriente e suggestivo: "cose maledette, abiette, immonde, squallide, losche, orride, compassionevoli, commoventi, stravaganti, ridicole". Tutto ciò insomma che risulta non funzionale al cospetto del freudiano "principio di realtà", il quale, come sappiamo, è in un rapporto di usurpazione e falsificazione con quello che invece possiamo chiamare "senso di realtà". E la mia idea, se posso infilarla qui in parole brevi, fra una riga e l'altra, è che la letteratura crea, difende, custodisce, esercita il "senso di realtà": in opposizione, integrazione o conflitto aperto con il "principio di realtà" che si impone nella norma sociale. Dunque, come ho detto all'inizio, questo di Orlando sarebbe un libro sulla fine di innumerevoli mondi vitali travolti dal tempo, dalla morte, dalla rovina, da quella serie di catastrofi riassorbite, elaborate, rientrate (più o meno ben mascherate) che è la storia. Mi sono fatto quest'idea non del tutto arbitrariamente, credo, perché il libro si muove e si dilata in modo da comprendere quasi (ma il quasi dovrebbe essere usato anche a proposito di qualsiasi altra opera umana), quasi tutta la letteratura occidentale. Dunque, perché? Che cosa avviene nella mente di uno studioso e teorico del la letteratura come Orlando? Trovo questa grandiosità del libro non enfatica, e neppure accademica. Mi sembra frutto, invece, di una passione o intuizione o ispirazione che ha portato lo studioso verso luoghi che magari a lungo non sospettava di voler visitare con tale insistente sistematicità. E non assegnerei questo esito semplicemente alla probità abitudinaria del ricercatore, le cui ben regolate abitudini di studio e di produttività procedono automaticamente, come una sorta di robotica seconda personalità (personalità professionale), senza la spinta di una volontà cosciente abitata da una passione oscura. Anzi, già che ho formulato la cosa in questi termini, ne approfitto: nel libro di Orlando un po' collaborano e un po' vanno per conto proprio queste tre energie: 1) le abitudini di studio (che producono schede), 2) la volontà cosciente (che produce categorie, classificazioni, albero semantico, ecc.), 3) una passione oscura che è anche una vocazione (che dà all'insieme una seconda forma, dovuta all'indomabilità della materia, la quale rientra e non rientra del tutto nelle categorie teoriche generali e in quelle analitico-descrittive specifiche~ una seconda forma risultante di fatto dall'immane montaggio letterario, per cui frammenti di innumerevoli altre opere, incastrati fra loro, fanno a loro volta "opera", per intarsio, per accostamento, per sequenza: a meno che uno non si limiti a leggere l' onnipresenza delle categorie descrittive, cioè l'albero semantico, trascurando di leggere le citazioni come testi reali e parlanti). Ma questa è solo un'ipotesi provvisoria. Per indicare che si tratta di un libro leggibile certo come costruzione cosciente e analitica, secondo quanto l'autore ci dice premurosamente con le sue ricorrenti didascalie. Ma che, oltre a questo, il tutto sembra anche emettere un messaggio meno univoco e decifrabile: la suggestione di una grande allegoria che riguarda, come ho già detto, la consistenza simbolica e il destino morale della letteratura, e che riguarda anche (non riesco a non pensarlo) il nostro attuale presente culturale, in quanto abitanti dell'universo Europa e Italia. Si tratta perciò di un libro a strati, polimorfico, difficilmente riducibile ad una sola dimensione analitica e argomentativa. Prevale comunque in esso il demone analitico (della classificazione immobile, spazializzata) sull'intenzione e sull'energia argomentativa: la connessione argomentativa e storica del discorso ristagna, rallenta, come in un ingorgo di immagini che diventa fatalmente contemplazione di immagini, quasi che l'autore, ipnotizzato dalla sua materia e dal suo modo di classificarne i fenomeni, non avesse più volontà sufficiente per arrivare a delle conclusioni storiche e teoriche più nette e più impegnative, che sa inesistenti o impossibili o parziali, ma volesse, piuttosto che dimostrarci, mostrarci qualcosa, il corpo minerale e l'archeologia simbolica della letteratura. Appunto: più oggetti e immagini, che teorie e idee. Direi che c'è nel libro una specie di stanchezza della teoria, che sì, continua a esercitare le sue doverose funzioni, ma tramuta anche le funzioni di controllo teorico in schemi classificatori, che indicano e nominano i testi, più che comprenderli e riassorbirli in un senso generale. Non so se quello che dico sia del tutto vero, ma io certo parteggio per l'ipotesi anti-teorica, per cui questo libro è tanto più significativo e interessante ai miei occhi quanto più mostra i limiti a cui va incontro la teoria (qualsiasi teoria) che voglia domare la pluralità dei fenomeni letterari e ridurre la pluralità dei discorsi critici a un tipo ideale unico. Dove !'"albero semantico" sta in un rapporto di relativa distanza e di proposta ipotetica con i testi citati, su cui proietta una luce più suggestiva che illuminante, allora mi pare che le cose vadano meglio. Se, viceversa, è l'albero semantico a imporsi come protagonista, allora i testi citati respirano meno, stanno lì come fantasmi, perché quello che sono sul punto di dire nel loro proprio linguaggio dovrebbe suonare in un certo senso come già prima detto dalla categoria analitica o nel linguaggio della teoria. La riduzione e traduzione stretta del linguaggio dei testi letterari nel linguaggio della teoria generale o dell'albero semantico specifico, non riesco a vederla come un vantaggio conoscitivo. La vedo piuttosto come una perdita. Nessuna teoria della letteratura, nessuna griglia analitica, merita il sacrificio del corpo testuale della letteratura. E questo a maggior ragione perché in questo libro una descrizione e classificazione di fenomeni testuali, che vorrebbe essere esauriente e "chiusa", tende a configurarsi come specificazione e deduzione esemplificativa di una teoria generale della letteratura. I tanti oggetti desueti che emergono nelle immagini della letteratura sono l'essenza della letteratura come ritorno del represso. Questo è il punto irrisolto e insieme la fonte di suggestione del libro: si parte dalla teoria freudiana della letteratura come ritorno del represso, si passa ad una vicenda di oggetti repressi che tornano insistentemente in tutta la letteratura occidentale, e si arriva ad una grande immagine allegorica, che però non viene letta come tale. Orlando vuole essere un analista e invece, in questo libro, è un immaginifico veggente, il costruttore non di una teoria, ma di una allegoria della letteratura come tesoro storico sepolto.

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