Linea d'ombra - anno XII - n. 96 - settembre 1994

Sì. La storia dell'America è in realtà in buona misura la storia della terra, del territorio. Possiamo abusare della terra, possiamo perdere il contatto reale con il territorio, ma quello che siamo, come nazione, ha molto a che vedere con il paesaggio, con la natura dei luoghi e con il trattamento che ha subito da parte dell'uomo. Non dimentichiamo che i primi coloni arrivati in America volevano sì la terra, ma soprattutto quello che la terra produce, che consideravano questo un posto da trasformare in una specie di bengodi economico per mezzo della terra. Alla fine degli anni Venti e nei Trenta è nato il movimento regionalista in letteratura, è diventato sempre più forte, più importante, con James Agee, per esempio. E Roosevelt invitava gli artisti a esaltare la realtà americana. Ma poi è arrivata la guerra e tutta quella tensione verso la ricerca delle nostre radici, tutti quei tentativi di entrare in contatto con la nostra ascendenza sono stati cancellati. E dopo sono venuti gli anni Cinquanta, un decennio povero, triste, in questo senso, con scrittori superficiali e legati a schemi materiali, commerciali. Solo negli anni Sessanta c'è stato un ripensamento, è da lì che vengono i semi del risveglio di oggi, la volontà di lavorare di nuovo sulle radici comuni della nazione. E così il regionalismo comincia a conoscere una;nuova stagione, a germogliare da capo. Credo che sboccerà in :Pieno quando si smetterà di chiamarlo regionalismo, ma è difficile, l'establishment letterario newyorkese lousa in continuazione, questo termine, per ridurre chiunque scriva di luoghi che non siano la costa orientale. Quindi, quando Philip Roth scrive degli ebrei del New Jersey, non si tratta di uno scrittore regionale, ma se John Steinbeck scrive della California settentrionale, allora è uno scrittore regionale. E Faulkner? Se non fosse stato uno scrittore così grande, così forte da sfondare ogni recinto schematico, sarebbe stato considerato il regionalista supremo. Pe,fino Flannery O'Connor? Sì, stessa storia. Ma era così brava che non e~ l'hanno fatta a ridurla, a imbrigliarla. Qual è il tuo prossimo progetto? Stai pensando a un altro libro? Sì. Questa volta vorrei attraversare il continente sull'acquà, dal!' Atlantico al Pacifico senza mai toccare terra. Non so ancora cosa scriverò, poi. Vorrei scrivere del viaggio per acqua in modo totalmente nuovo, mai sperimentato da nessuno. Sto leggendo una serie di libri su questo, sulla storia dei viaggi per fiume, per acqua dolce. Ci sono moltissimi resoconti di viaggiatori del secolo scorso, moltissima letteratura. Quindi vuoi paragonare il presente al passato dei fiumi, delle città sui fiumi? Può darsi. Forse. Penso a una specie di incrocio tra Strade Blu e Prateria. Sarà un viaggio difficile, in territori selvaggi. Tu sai che la natura selvaggia, per i primi coloni, era il territorio del diavolo ... è un concetto che ha radici nel cristianesimo, nella versione della Bibbia di King James il territorio selvaggio viene associato a Satana, ai poteri satanici. Per questo i coloni ritenevano gli indiani l'incarnazione del male, del diavolo. Ma lasciamo perdere le persone. La foresta stessa diventò il regno del male, perché non era addomesticata, era il caos, o almeno, così sembrava ai nuovi arrivati. Certo non somigliava a un giardino inglese. INCONTRI/ LEASTHEAT-MOON 55 I primi grandi scrittori americani erano ossessionati da questo tema, Cooper per esempio. D'altra parte, però, è vero che il territorio selvaggio in questo continente è una cosa straordinaria, se lo si esplora lontano dalle vie di comunicazione, se lo si affronta da soli. Me ne sono accorto anch'io. Mi comunica un senso di disagio, perché non è il tipo di foresta, di territorio che avete in Europa, quando lo si esplora si ha la sensazione che se si riesce a uscirne vivi è per pura fortuna. Io ho un senso di premonizione, riguardo a questo nuovo viaggio sull'acqua, sui fiumi. Ce n'è uno che si chiama "il fiume del non ritorno" ... e ci sono le acque bianche, le rapide. Parliamo della tua scrittura, di come costruisci i tuoi libri. Vuoi sapere tutto, anche i particolari tecnici? Tutto quello che contribuisce a rendere la tua scrittura quella che è, così piena di fascino e di immaginazione, eppure così legata alla realtà di un luogo. Per scrivere Prateria ho raccolto materiale - appunti, registrazioni, opuscoli -percorrendo la Chase County senza un 'idea precisa di cosa volevo fare, esplorando il territorio, ascoltando le persone e quello che avevano da dire. Soprattutto le persone che svolgevano un lavoro interessante, legato alla terra, e capaci di raccontare, di comunicare, di trattenere la mia attenzione e quindi quella del lettore. Così ho accumulato un materiale immenso, in quasi tre anni di lavoro. Poi, quando ho scoperto il modo di metterlo insieme, questo materiale, quando ho avuto l'intuizione del reticolato, guardando le venticinque carte geografiche della Chase County stese sul pavimento del mio studio - ne parlo nel primo capitolo del libro, Intersezioni - allora sono tornato sul campo e ho percorso a piedi le dodici suddivisioni del reticolato. Mi ci è voluto molto tempo, ma mentre lo facevo tutto il materiale raccolto ha cominciato a "selezionarsi da solo", e il progetto a prender forma. Io scelgo sempre qualcosa di piccolo, di ben definito, da cui partire, qualcosa che arriva poi a rappresentare un tema molto più vasto, a rivelare un mondo molto più complesso. Cerco questi spunti dappertutto, nelle persone, negli oggetti, nel mondo naturale. Per esempio, a un certo punto ho trovato una pietra scheggiata, appuntita. Non poteva essere una punta di freccia perché arco e frecce non hanno più di mille anni, mentre quel frammento era vecchio di almeno cinquemila. Ho passato giorni a far ricerche in biblioteca, a far domande per capire cosa fosse, a che epoca risalisse, a cosa servisse, e tutto questo è finito dentro un capitolo. Per quanto riguarda il mio modo di seri vere, faccio prima una stesura a mano, a matita, e su carta poco costosa, per sentirmi libero di gettar via e riscrivere quanto mi pare. Butto giù tutto quello che mi viene in mente, poi scelgo, scarto, e ricomincio da capo, con molta libertà, fino a quando non ottengo qualcosa di solido, di fondamentale. Di solito una piccola parte del libro. Poi faccio una seconda stesura, con tutte le parti così costruite, sempre a mano, ma questa volta a penna, e su carta molto migliore. Se leggi questa stesura e la confronti con quella definitiva, stampata, vedi che contiene già la forma finale. Poi copio tutto al computer e continuo a lavorare sulla scrittura, faccio almeno quattro, cinque revisioni, fino a quando non mi sembra più possibile migliorare quello che ho scritto. La prima stesura al computer è quella che va alla casa editrice, agli editori, ma di solito continuo a lavorarci da solo, a rivedere senza ascoltare i loro consigli. Sono inutili. Alla fine sono io a giudicare se quello che ho scritto è il meglio che posso dare.

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==