Linea d'ombra - anno XII - n. 96 - settembre 1994

34 INCONTRI/ BIAMONTI dai poeti simbolisti francesi che hanno visto la natura come autoritratto, come stato d'animo. Lo sviluppo è stata la tecnica del correlativo-oggettivo di Montale, Eliot. La descrizione delle cose come riflesso oggettivo dello stato d'animo. Come emblema aspro della coscienza umana. La pittura che viene da Courbet e Cézanne è anche questo. Una sorta di autoritratto, di ricerca delle emozioni più profonde della tessitura del mondo che l'uomo ha. È destino umano abitare un mondo, ed è destino averne la percezione. Ma questa natura elevata a simbolo ci precede e ci succede ... Il correlativo-oggettivo è altra cosa dal simbolo, è più concreto. L'osso di seppia di Montale è un simbolo ma anche un oggetto, sballottato dalle ondate. Oppure penso a Sbarbaro che dice: "Somiglio sempre più alla vita che un dì vidi crescere in un muro fessurato". C'è questa immedesimazione nelle cose, che diventano anche simboliche, ma anche qualcosa di più: un naturalismo di partecipazione, non solamente simbolico. Dalle sue parole, il suo rapporto (anche professionale) con la natura, ilpaesaggio in cui vive, sembrano essere meri accidenti ... Certo, potrei benissimo lavorare sulle coste atlantiche o nel deserto del Sahara. Basta mettere l'uomo in relazione alle cose che lo circondano. Eppure, come non c'è parola fuori posto nelle suepagine, così non c'è sasso fuori posto nei sentieri che i suoi personaggi percorrono. Una esattezza che non esiste altrove ... Credo che questo sia un dovere di chi scrive. Ma c'è anche molta invenzione, perché se è destino umano abitare un mondo, è destino sognarne un altro. Ogni romanzo si svolge a metà strada su questa via che porta dalla realtà al sogno; ma non diminuisce il bisogno di precisione. Bisogna creare un mondo omologo a quello in cui viviamo. Se ha un fascino questa descrizione del paesaggio è il suo non essere verista, ma un tessuto mentale. L'abilità dello scrittore sta nel rendere vivo questo paesaggio in cui il personaggio agisce, altrimenti sarebbe una marionetta. Bisogna dare epicità al paesaggio, ma è sempre questo mondo umano che va rappresentato. Non è un paesaggio vernacolare o regionalistico, ma un paesaggio dell'anima. In realtà mi piacerebbe abitare sulla costa atlantica e scrivere là un libro. Qui da noi il cielo fa da tetto, là si apre sull'infinito. Ma il paesaggio è un modo per esprimersi, permettere insieme l'alterità e l'uomo che la abita. L'infinito, ma anche il silenzio, così presente in ogni sua riga, anche nei dialoghi. Che parte ha questo silenzio? Io faccio una distinzione tra - in francese si fa meglio, mot e parole- in italiano si potrebbe dire tra chiacchiera e parola. La chiacchiera si fa per intrattenere, la parola invece deve coinvolgere l'essere profondo dell'uomo. Io cerco di essenzializzare il linguaggio, per far sì che ogni frase coinvolga l'essere, quindi si inserisca nella tensione della struttura narrativa stessa, e che abbia una sua musicalità, come una suonata di pianoforte. L'essere è alonato di silenzio, muove l'angoscia profonda o l'estasi paradisiaca dell'uomo. L'essere è a contatto della grande libertà, di una interrogazione sul destino. Io cerco di far parlare i personaggi in modo che quando si trovano in una impasse si aggrappano al fondo di una saggezza ancestrale, di ciò che han sentito dai loro padri e dai padri dei loro padri. Tanto che sembrano parlare per sentenze ... È perché devono suffragare il loro dire, in modo che vi sia un cortocircuito del tempo. Anche questo far parlare il provenzale, come aveva capito Calvino, dà autorevolezza alle parole in forza della loro antichità. Un antico storico, ma anche individuale. Certo, perché in fondo uno lo capta. Chi ha esperienza di scrittura conosce questa percezione. La parola deve esprimere la sacralità della vita. Le sue figure femminili sembrano il coro della tragedia greca, assistono alla vicenda, la rendono comprensibile. Le mie figure femminili adunano nello stesso tempo le sparse forze della vita, vogliono ricreare una specie di focolare e nello stesso tempo sono angeli cosmici salvifici, lontani. Come nella antica letteratura provenzale: l' amour de loin, che trascina verso il sublime. Sì, sono un po' schematizzate entro queste due polarità e poi soprattutto hanno un rapporto più armonico e più melodioso con la realtà. Sono un po' degli incanti. Ma sembrano anche essere quelle che trattengono gli uomini a una concretezza che altrimenti fuggirebbero ... Li ancorano. Ma è un ancoraggio che può sempre venire a cessare da un momento all'altro. Diceva Malraux nella Condizione umana che il rapporto fondamentale tra uomo e donna è l'angoscia di sentirsi separati, inesorabi I mente. Del resto ognuno è forma del proprio tempo e della propria cultura. La mia è quella della totale impossibilità di vincere il cortocircuito della ipseità: l'uomo come dio mancato e la vita come passione inutile. Ma non si può non essere affascinati dalla vita, perché non abbiamo altro. In questa consapevolezza della condizione umana, che ruolo ha la presenza, o l'assenza di un dio? Noi siamo scrittori della morte di Dio. Credo che la più grande letteratura del Novecento giri intorno al vuoto che ha lasciato la morte di Dio. Siamo scrittori di teologia negativa, dell'agonia del cristianesimo. Finita questa certezza, si è cercato di sostituirla con altre fedi; marxismo, psicanalisi, strutturalismo; ma nessuno ha sostituito Dio. Ne siamo tutti orfani. Ma se non c'è questa tensione verso il divino fallito, non c'è nemmeno grandezza nella letteratura. Però non c'è più la certezza di Dio, c'è il presentimento pascaliano di Dio come sfida. Anche negli scrittori d'azione, come Malraux e Saint-Euxpéry, che sentivano il fascino di Pascal, l'angoscia di essere privi di Dio. Con lui tutto si ricomporrebbe e troverebbe una giustificazione. Capisco bene Heidegger che dice: solo un Dio ci può salvare. Non c'è civilizzazione che non si fondi su un'idea del divino, su unametamorfosi del sacro. E la notizia della morte di Dio non è lieta, come voleva Nietzsche, ma è tragica. Ha posto nel tragico la condizione umana. Tanto più ora che si è visto come i tentativi storici di sostituirsi a Dio sono finiti nei più grandi crimini. Una condizione che accomuna la riflessione di Francesco Biamonti e la coscienza addormentata di chi dipende dalla televisione? Forse. La televisione in questo caso è ciò che Sant' Agostino chiamava la diversione, un modo per sfuggire alla coscienza. Un modo per non pensare. Ma non è solo della televisione: quanti sono in realtà i libri che "tengono" davanti alla morte? Ma, vede, io non voglio scrivere libri di massime sapienziali. Sono i personaggi a partecipare a una vicenda polifonica, che dica e insieme smentisca. Per questo i miei personaggi, quando dicono qµalcosa, lo fanno con titubanza. Suggeriscono, non predicano.

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==