Linea d'ombra - anno XII - n. 96 - settembre 1994

26 VEDERE,LEGGERE,ASCOLTARE forme assumerà il conflitto tra gli obiettori e lo Stato nella nuova Italia uscita dalle urne il 27 e 28 marzo scorsi? Durante la guerra del golfo gli italiani non dimostrarono affatto di avere "chiara coscienza che la pace è un bene prezioso" e, sia pure solo davanti alla televisione, si scoprirono più interventisti che pacifisti. Un analogo orientamento sembra prevalere di fronte al dramma della Bosnia. Se poi si guarda al mondo dell'obiezione, crediamo sia da approfondire maggiormente il giudizio che "la legge ha anche tolto tensione alla scelta di rifiutare l'esercito". Senza moralismi, ma pure senza nascondersi-ed Albesano non lo fa-, la verità amara che in larghi strati dell'opinione pubblicai' immaginedell 'obiettore è diventata più negativa che positiva e che il servizio civile, che "sarebbe necessario gestire[ ...]meno come scelta individuale e più co~e opposizione antimilitarista", troppo spesso viene avvertito come un privilegio anziché come un impegno sociale. Così come sarebbe necessario che gli obiettori di coscienza non smarrissero la memoria e la consapevolezza che, come scriveva Aldo Capitini, l'obiezione "non è la ribellione ad un 'servizio di lavoro', ad un ordine di soccorso in caso di incendio, di inondazione; qui è altro: qui è in gioco un punto di vista sui rapporti umani, una visione di ciò che è o dovrebbe essere l'umanità; e dato il duro prezzo che costa l'obiezione di coscienza, dovrà trattarsi di un sentimento e di un impegno profondo". AFRICA,SENZAMITO PaoloBertinetti Per anni, e fino ad anni neppure troppo lontani, i "bravi compagni" usavano accusare e coprire di disprezzo i "reazionari" che si limitavano a constatare e descrivere la natura totalitaria dei regimi dell'Est europeo. In nome del p1incipio superiore del socialismo venivano negati la realtà e il diritto di denunciarla. Qualcosa del genere è avvenuto e ancora avviene a proposito dei paesi africani. Ed è anche peggio, perché in questo caso i "bravi compagni" non sono soltanto dei burocrati di partito, ma delle ottime persone appartenenti a una vasta area democratica, che, questa volta, negano la realtà e l'evidenza in nome del principio superiore della condanna del colonialismo. In parte viene a porre rimedio a questo atteggiamento miope (e in ultima istanza autopunitivo) il libro di Claudio Moffa L'Africa allaperiferia della storia (Guida, pp. 359, Lire40.000), che cerca pietosamente di sbarazzare il terreno dall'interpretazione che a partire dagli anni Sessanta la scuola "neo-marxista" aveva dato del sottosviluppo africano. Gli studiosi di questa scuola (detta anche "revisionista"), che si erano trovati davanti le teorie razziste che avevano giustificato ideologicamente lo sfruttamento coloniale e che si erano mossi dietro la spinta offe1ta dal disfacimento delle colonieedallanascitadei nuovi Stati indipendenti, costruirono una teoria della storia dell'"Africa nera" che imputava il ritardo africano esclusivamente all'azione commerciale e coloniale delle potenze europee (e contemporaneamente esaltava i segni delle anticheciviltàafricaneconl'intento di fornire una base al bisogno di consapevolezza e di fierezza nazionale dei nuovi Stati). In realtà, come spiega Moffa, questi studiosi, elaborando romanticamente i pochi documenti sciittielemolte tradizioni orali, incorsero in forzature e deformazioni clamorose, ipotizzando l'esistenza nell'Africa pre-coloniale di stati ordinati e di società strutturate come quelle dell'Europa coeva. Le loro tesi possono essere comprese storicamente in quanto espressione del clima culturale della decolonizzazione; ma non possono più essere considerate come una credibile ipotesi di lavoro. Il divario tra Africa e Europa era già forte e netto al momento dell'impatto, all'inizio dell'Età moderna e delle avventure coloniali, e va ricondotto a una serie di aspetti tecnologici "che richiamano l'importanza dei fattori di lunga durata, geografici, prima ancora che storici". Vuoi per l'isolamento dalle civiltà del bacino del Mediterraneo causato dalla desertificazione e dalla barriera delle foreste; vuoi per la natura del suolo e per il clima caldo umido, che non consentiva la coltivazione del frumento e degli altri cereali, anche quando, seppure con grande ritardo, le conquiste della rivoluzione agricola giunsero nell'Africa nera; vuoi per il ritardo con cui arrivarono i risultati dell'altra grande rivoluzione, quella della lavorazione del ferro, il divario rispetto ali'Europa, nel momento dell'arrivo degli europei, era fortissimo. Indicatori decisivi, come la non conoscenza dell'aratro e della ruota, l'arretratezza della tecnica edilizia e di quella marittima, l'assenza della scrittura (basilare per la trasmissione del sapere tecnologico), furono sistematicamente elusi nelle analisi della scuola "revisionista". E questo ne spiega l'inattendibilità, accompagnata, per di più, dal mito di un'Africa felix mai esistita: anche l'Africa precoloniale "aveva le sue guerre, i suoi schiavi, le sue violenze e sopraffazioni, pur limitate e contenute da una tecnologia di livello inferiore. Quel che è stato felicemente definito rimorso etnologico- la cattiva coscienza degli studiosi appartenenti al mondo imperialista - non può far dimenticare questo dato di fatto". Ed è bene che questa consapevolezza non resti patrimonio dei soli specialisti (come avveniva per l'Est europeo, che gli specialisti in pubblico giustificavano, mentre inprivatone riconoscevano la mostruosità), ma che venga trasmessa e diffusa, per impedire che sull'equivoco e sull'ambiguità vengano costruite speranze impossibili e solidarietà mal riposte. Ma è necessario andar·eoltre il punto a cui è giunto Claudio Moffa. E dichiarare alcune altre scomode ma ovvie verità, che sembrano non far parte del patrimonio politico e culturale degli ambienti democratici e progressisti. Quelladell' Africa è un'immane tragedia. Siaper la cecità, l'avidità e lacrudeltà delle classi dirigenti dei suoi Paesi, che, con ben poche eccezioni, hanno costituito dei regimi spesso sanguinari e quasi sempre rapaci, che depredano i loro popoli· e i loro territori con un'ingordigia pari a quella delle potenze neo-coloniali di cui sono complici. Sia per la gravità micidiale del boom demografico. Al l'inizio del periodo coloniale l'Africa nera era sottopopolata e ai primi del Novecento contava circa 100 milioni di abitanti: per restare a quel livello, date le condizioni sanitarie e ambientali, era necessario che ogni donna mettesse al mondo almeno sette figli. Col passare dei decenni tali condizioni vennero grandemente migliorate, ma il tasso di natalità rimase immutato: nel 1960 gli abitanti erano 200 milioni, nel 1990 era 450 milioni, nel 2020 probabilmente saranno 1000 milioni. Nel frattempo tutta l'Africa nera ha dovuto registrare un'urbanizzazione impressionante: le

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==