Tutte le mattine il nonno mescola con forza la sua tazza di caffè solubile. Impugna il cucchiaio come, in altri tempi, la defunta nonna donna Clotilde la frusta per la cioccolata o come lui stesso, il generale Vicente Vergara, impugnava il pomo della sella da monta appesa alla parete della sua stanza. Poi stappa la bottiglia di tequila e la inclina fino a riempire metà tazza. Si astiene dal mescolare la tequila col Nescaffè. Che l'alcool si sistemi da solo. Guarda la bottiglia di tequila e di sicuro pensa a com'era rosso il sangue versato, limpido l'alcol che lo aveva fatto ribollire e infiammare per i grandi scontri, Chihuahua, Torre6n, Celaya e Passo de Gavilanes, quando gli uomini erano uomini e non c'era modo di distinguere fra l'allegria della sbornia e l'ardire del combattimento, sicuro, dove poteva trovare spazio la paura se il piacere era la lotta e la lotta il piacere? Disse tutto questo quasi ad alta voce, fra un sorso e l'altro di caffè corretto. Nessuno ormai sa più preparargli il suo caffè da campo, che sa di terracotta e di zucchero di canna, proprio nessuno, neppure la coppia di servitori portati lì dalla piantagione di zucchero di Morelos. Perfino loro bevevano Nescaffè; lo inventarono in Svizzera, il paese più pulito e ordinato del mondo. Il generale Vergara ebbe una visione di montagne innevate e mucche con i campanacci, ma non disse nulla ad alta voce perché non si era ancora messo i denti finti che dormivano sul fondo di un bicchiere d'acqua davanti a lui. Questa era la sua ora preferita: pace, sogni, memorie, fantasie senza nessuno che potesse smentirle. Che strano, sospirò, che avesse vissuto tanto e che adesso la memoria gli restituisse la vita come una dolce bugia. Continuò a pensare agli anni della rivoluzione e alle battaglie che forgiarono il Messico moderno. Allora sputò la sorsata che faceva girare fra la sua lingua di lucertola e le sue gengive incallite. Quella mattina vidi mio nonno più tardi, da lontano, che vagava come sempre in pantofole per i saloni di marmo, mentre si puliva, con un grosso fazzoletto colorato, i suoi occhi color dell'agave dall'eterne cispe e dalle lacrime involontarie. Lo guardavo così da lontano, era come una pianta nel deserto, si muoveva appena. Verde, coriaceo, secco come le pianure del Nord, un vecchio cactus ingannevole, che accumulava nelle sue viscere la scarsa pioggia di una qualche estate, fermentandola: gli usciva dagl' occhi, senza arrivare a bagnargli le bianche ciocche del cranio che sembravano le barbe di una pannocchia morta. Nelle foto, a cavallo, sembrava alto. Quando girava, in pantofole, ozioso e vecchio, per le sale di marmo della residenza del Pedregal, sembrava piccolo, asciutto, tutto pelle e ossa, pelle disperata per non riuscire a staccarsi dallo scheletro: vecchino teso, scricchiolava. Ma non si piegava, questo no, chi avrebbe mai osato farlo! Tornai a sentire il malessere di tutte le mattine, l'angoscia del topo costretto nell'angolo che mi coglieva vedendo il Generale Vergara vagare senza meta per le sale, i vestiboli e i corridoi che a quel!' ora odoravano di saggina e sapone, dopo che Nicomedes e Engracia li avevano lavati, in ginocchio. La coppia di servitori si rifiutava di usare apparecchi elettrici. Dicevano di no con una grande dignità, umile, molto toccante. Il nonno dava loro ragione, gli piaceva l'odore di saggina insaponata e per questo Nicomedes e Engracia fregavano tutte le mattine metri e metri di marmo di Zacatecas, per quanto il laureato Agustfn Vergara, mio padre, dicesse di averlo fatto arrivare da Carrara, ma acqua in bocca, non lo deve sapere nessuno, è proibito, mi fanno pagare i diritti doganali ad valorem, non si possono più nemmeno dare feste, appari a colori sul giornale e sei fregato, bisogna essere austeri e addirittura vergognarsi di avere lavorato duro tutta la vita per dare ai tuoi il meglio. MESSICO/FUENTES13 Uscii correndo da casa, indossai la giacca di pelle Eisenhower. Arrivai alla rimessa e salii sulla Thunderbird rossa, la accesi, il portone del garage si aprì automaticamente al rumore del motore e partii in quarta. Qualcosa, un minimo senso della precauzione, mi disse che Nicomedes poteva essere lì, sulla strada fra il garage e la massiccia porta d'entrata, a mettere a posto la canna per innaffiare, o a tagliare l'erba fra le beole. Immaginai il giardiniere volare in aria, fatto a pezzi dall'impatto con l'automobile e accelerai. La porta di cedro consunta dalle piogge estive, gonfiata e scricchiolante si aprì anch'essa al solo passare della Thunderbird vicino alle due fotocellule nascoste nella roccia ed era fatta: le gomme stridettero quando svoltai velocemente a destra, credetti di vedere la cima innevata del Popocatépetl, era un miraggio, accelerai, la mattina era fredda, la nebbia naturale dell'altopiano saliva per incontrarsi con la cappa di smog imprigionata dall'assedio delle montagne e dalla pressione dell'aria alta e fredda. Accelerai fino ad arrivare all'ingresso della tangenziale, respirai, accelerai, ma tranquillo, non avevo più niente di cui preoccuparmi adesso, potevo fare il giro, una, due, cento volte, quante volte volevo, per migliaia di chilometri, con la sensazione di non muovermi, di essere sempre al punto di partenza e contemporaneamente al punto di arrivo, lo stesso orizzonte di cemento, le stesse pubblicità della birra, degli aspirapolvere elettrici, quelli che Nicomedes e Engracia odiavano, dei saponi, dei televisori, le stesse casupole basse, verdi, con le reti alle finestre, le tende di ferro, gli stessi colorifici, autofficine, spacci con all'entrata frigoriferi pieni di ghiaccio e gazzose, i tetti di lamiera ondulata, le cupole di alcune chiese coloniali perse fra migliaia di cisterne d'acqua, una costellazione di personaggi sorridenti e prosperosi, rosei, dipinti di fresco: Babbo Natale, La Bionda della birra Categoria, il pupazzo della Coca-Cola col tappo come corona, Paperino, e sotto il reparto delle meraviglie, venditori di palloncini,.cicche, biglietti della lotteria, giovani in abiti da spiaggia e camicie a maniche corte in gruppo di fianco ai juke-box, con la cicca in bocca, la sigaretta, che scherzano e si divertono, i camion carichi di materiale da costruzione, le armate di Volkswagen, l'incidente all'uscita di Fray Servando, i poliziotti in motocicletta, i carabinieri, la mazzetta, l'ingorgo, i claxon, i vai a fare in culo, di nuovo la strada libera, identica, il secondo giro, lo stesso percorso, le cisterne, Plutarco, i camion del gas, i camion del latte, un'inchiodata, le bottiglie del latte cadono, rotolano, si infrangono sull'asfalto, sui parapetti della tangenziale, contro la Thunderbird rossa, la marea di latte. Il parabrezza bianco di Plutarco. Plutarco nella nebbia. Plutarco accecato dal biancore immenso, liquido, cieco esso stesso, invisibile, che lo rende invisibile, un bagno di latte, latte andato a male, latte allungato, latte di tua madre, Plutarco. Senza dubbio, il nome si presta agli scherzi e a scuola mi avevano detto di tutto, come? adagio, ripeti, Verga rara e trullallero, trullalà, Verga Verga, ra, ra, ra, e quando facevano l'appello non mancava mai uno spiritoso che dicesse Vergara Plutarco, presente e sull'attenti, oppure piccola, o addormentata. Dopo, ali' intervallo, erano botte e quando, a quindici anni, mi diedi alla lettura di romanzi, scoprii che un autore italiano si chiamava Giovanni, così, ma di sicuro questo non avrebbe impressionato la massa di stupidi burloni delle scuole superiori pubbliche. Non andai a scuola dai preti primo perché il nonno disse mai, per che cosa si era fatta la rivoluzione allora, e mio papà, il laureato, disse okay, il vecchio aveva ragione, c'erano tanti mangiapreti in pubblico che poi in privato erano conservatori, era meglio per l'immagine. Però io avrei voluto fare come mio nonno don Vicente, una volta
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