Linea d'ombra - anno XII - n. 96 - settembre 1994

LEELEZIONIIN MESSICO 11 MESSICO'94: UN SISTEMAIN CRISI SaverioEsposito FotoSaba-Rea/Contrasto. È finito il dominio sul Messico del Partito rivoluzionario istituzion.ale. La storia si rimette in cammino con nuove contraddizioni. Eppure non sono cambiati né migliorati i problemi del Messico, dopo le elezioni presidenziali del mese di agosto. Si sono anzi confermati, acuiti. Il dominio incontrastato del Partito rivoluzionario istituzionale ha mostrato la corda già nelle precedenti elezioni, vinte anche grazie a molti brogli; la vittoria odierna di Ernesto Zedillo per poco più della metà dei suffragi è risicata, fragile. Il nuovo parlamento avrà un'opposizione di destra e di sinistra più agguerrita e numerosa, che darà filo da torcere al nuovo presidente o (principalmente la destra) gli imporrà mediazioni, compromessi; e intanto premono i tempi e le scadenze per una economia sottoposta più che mai a contraddizioni pesantissime. Certamente Cuauhtémoc Cardenas - figlio di Uizaro, il propugnatore e animatore del governo progressista e populista (pur nella corrente del Pri) degli anni Trenta-Quaranta - non avrebbe potuto modificare di molto lo stato delle cose: alcune scelte risultano, per ogni governo, intoccabili. Lo stesso trattato di scambio con gli Usa non può essere messo in discussione globalmente, come non si può tornare indietro sulla strada della privatizzazione di istituti bancari, o di industrie gravate da deficit e malaorganizzazione e corruzione mostruosi. Alcune cose, tuttavia, avrebbero potuto cambiare; per esempio, il rapporto con un mondo contadino che le scelte di Salinas de Gortari hanno aggravato privatizzando gli ejidos, le terre comunali e comunitarie, in mancanza delle quali è crollato un sistema di sopravvivenza dei contadini più poveri, e altri milioni di persone si sono visti costretti all'emigrazione verso le città. Solo l'economia del Nord si porta relativamente bene; ma questo acuisce e non riduce i problemi, poiché accresce la distanza economica del Centro e Sud da regioni ricche di petrolio, le più industrializzate, e anche tra le meno abitate, che sono le più vicine geograficamente ma anche storicamente e culturalmente, mentalmente a quelle ricche del Sud-Ovest statunitense, che fino a un secolo fa erano (è bene non dimenticarlo) messicane, e dove sono confluite moltitudini di chicanos, immigrati dal Messico negli ultimi decenni (Los Angeles è considerata la seconda città "messicana" per numero di abitanti dopo Città del Messico). La dipendenza economica dagli Usa è paradossalmente più alta nei settori nuovi, e più nel Centro e nel Sud che nel Nord, che è più forte e più autonomo. La capitale, Città del Messico, sovrabitata, iperinquinata, è afflitta da una crescente disoccupazione, da livelli di micro e macrocriminalità tra i più alti del mondo, da una disparità sociale agghiacciante. Il Sud ha avuto di recente, con la rivolta del Chiapas, il merito di riportare allo scoperto, all'attenzione dell'America Latina e del mondo, una disparità ancora più grave, tra centro e periferie, e tra mestizos e indios. Quest'ultimo è un problema connaturato alla storia del Messico, cresciuta, dal tempo dell'Indipendenza, sull'emarginazione degli indios da parte dei meticci, sul dominio dei meticci. In una situazione di crisi aggressiva e minacciosa, qualsiasi potere eletto non avrebbe avuto vita facile; i meccanismi del Pri sono andati in crisi da tempo, ma il sistema interno della società messicana-l'equilibrio tra i poteri, tra le caste, tra i potentati, e anche tra borghesia e proletariato, tra centro e periferie - si è costruito tutto dentro e attorno al Pri, che è diventato "la società", il partito-totalità, né più né meno, per l'essenziale, che in regimi sul tipo di quello sovietico. Con la differenza di un diffuso cinismo pratico, per il quale, per esempio, si sono concessi ai ceti intellettuali molti privilegi e libertà di parola, fin quando però essi non lasciassero le parole per i fatti. E allora la repressione è sempre stata terribile (basti pensare al caso più noto, quello di Tlatelolco, nel '68, con il conseguente massacro di centinaia di studenti e la decapitazione del movimento studentesco). Il "liberalismo" del Pri si è potuto spingere sino a sostenere spesso e volentieri Castro, o ad aprire le frontiere a migliaia di profughi, per esempio dal Guatemala, ma anche dall'Argentina, dal Brasile o dal Ci le, dai paesi incui la stretta repressi va e dittatoriale spingeva per ragioni politiche o (come dai paesi confinanti del Centro America) per ragioni di fame, a espatriare nella grande accogliente federazione. Ma anche qui, naturalmente, con il divieto di far politica, e di disturbare in alcun modo la "tranquillità" del regime. Grande paese, il Messico, nato da una rivoluzione enorme, lunghissima, sanguinaria e spesso torbida, che è anche stata un'infinita guerra civi le, ma che agli inizi del secolo ha aperto la strada a tutte le altre e ha pur conquistato riforme pilota, per il resto del "Terzo Mondo" ... Grande paese con una grande cultura. Il ruolo degli intellettuali è stato, lo si è visto, necessariamente ambiguo, rivoluzionario a metà, accerchiato, minacciato, ma anche insidiato, blandito, protetto, mantenuto, sostenuto, corrotto ... È oggi proprio la riduzione dei privilegi dei ceti medi, intellettuali e non, a spaventare più di ogni altra cosa il governo; poiché lacapacità di acquisto di questi ceti, con il carovita e l'inflazione, si è incredibilmente ridotta. E il rischio maggiore viene dunque per il Pri da ceti che tradizionalmente l'hanno sostenuto, ne hanno fatto parte, ne sono stati asse determinante e ne hanno assicurato la formazione e il ricambio delle leadership in ogni ramo dell'economia e della burocrazia. Anche gli intellettuali-artisti (gli Octavio Paz, i Carlos Fuentes, gli Aguilar Camin, che nel rapporto con il potere delle istituzioni dello stato, cioè del partito, sono cresciuti, e anche le Elena Poniatowoska o i Pacheco, che sono stati e sono coraggiosi personaggi di opposizione, ma pur dentro i meccanismi del privilegio) hanno dovuto tener conto della realtà mastodontica di un sistema di potere nato prima di loro, o consolidatosi, così come loro l'hanno conosciuto (proprio con la presidenza di Lazaro Cardenas, "pacificatore" delle componenti maggiori della rivoluzione e repressore delle più pericolose) quando loro erano bambini. Hanno agito tra dentro e fuori, mediatori, funzionari, ma anche oppositori a loro modo, personaggi rappresentativi onorati e temuti (come non accade in tanti altri paesi e certamente non accade da noi), cercando di mostrare all'esterno una coerenza ideologica e ideale, la cui attuazione è faticosa e delicata. Il racconto di Fuentes che pubblichiamo è esemplare di una riflessione sulla borghesia "'rivoluzionaria"e le sue tare iniziali e finali, i suoi percorsi dentro il privilegio e la pratica del potere, il suo cinismo. Può apparire come un racconto "dall'interno". Ma può servirci oggi a capire qualcosa di più della storia di questo grande paese, una storia che ha ripreso a camminare con passi di tigre.

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