Linea d'ombra - anno XII - n. 96 - settembre 1994

10 CULTURA del nostro tempo con l'occhio plurimillenario dell'ebraismo. La cultura ebraica ha infatti qualcosa di specifico da dire su questi temi. Essenzialmente per due motivi. L'ebraismo è innanzitutto una cultura specializzata nell'identità e nella conservazione della medesima. Può anzi vantare qualche punto in più, su questo specifico aspetto, rispetto ai (troppo) nuovi paladini dell'identità, siano essi serbi o arabi (per non parlare dei lumbard). Ed è quindi in grado di porsi in maggiore sintonia con le solidarietà verticali (o tra generazioni) proclamate dalle nuove identità etnico-religiose. Ma nello stesso tempo, e a differenza di queste ultime, è anche storicamente una cultura di minoranza, in quanto cultura elaborata da minoranze incuneate nel corpo di maggioranze ostili. È il punto di vista degli sconfitti (e non dei sopraffattori) e, insieme, una cultura decentrata elaborata in assenza di un centro, ma in una condizione di massima dispersione (la diaspora). L'ebraismo ha questo di particolare e, in fondo, di prezioso rispetto al nostro tempo: è stata una tradizione culturale abbastanza chiusa da mantenersi e da trasmettersi per millenni malgrado la dispersione, ma abbastanza aperta da adattarsi a contesti storici e geografici diversissimi e da riuscire a stabilire processi osmotici con le maggioranze ospitanti. Stefano Levi Della Torre mostra a questo proposito come esista una netta differenza tra il razzismo e l'antisemitismo (che pure sono accomunati da più di un aspetto). Il razzis_mo è la paura del diverso, dell'altro da noi. L'antisemitismo è viceversa la paura del simile a noi. L'ebreo fa tanta più paura in quanto è spesso indistinguibile da noi, parla la nostra stessa lingua e si rifà alle stesse scritture e allo stesso Dio. Il razzismo considera l'altro come essere inferiore. L'antisemitismo attribuisce viceversa ali' ebreo una straordinaria potenza, che è tanto più temibile in quanto occulta: gli ebrei per definizione non combattono ma complottano, come ben sa il ministro Clemente Mastella. L'antisemitismo in quanto odio per il simile (ma non abbastanza identico) assomiglia piuttosto alla misoginia: sia le donne che gli ebrei rappresentano infatti la frustrazione vivente e permanente della totalità (della società maschia e cristiana). E "spetta forse alle periferie ... rettificare le cose rivelando l'ovvio, cioè che la condizione a cui nessuno sfugge è l'essere parte tra parti" (p.103). La peculiarità dell'ebraismo, che ne ha permesso la sopravvivenza malgrado la diaspora, consiste per Stefano Levi Della Torre nella sua capacità di gravitare costantemente attorno a un centro che però rimane vuoto; che è un campo di forze non una "cosa": un Dio che si ritrae, non pronunciabile per nome e npn rappresentabile per immagine. Quando una "cosa" viene eretta al centro, ossia quando il centro viene riempito, ci troviamo di fronte a un fenomeno di idolatria. Non diverso era il messaggio di Marx che poneva al centro non una cosa (il capitale), ma una relazione di rapporti di produzione. L'elaborazione ebraica ci propone la necessità di un centro, che deve esserci pena il disorientamento, ma che non deve essere riempito pena l'idolatria, ossia il riferimento a un falso sostituto. Da questo punto di vista le nuove correnti etno-centriche hanno troppa fretta di sostituire le vecchie centralità con nuovi idoli, dimenticandosi di essere parte rispetto a un tutto, mentre i teorici della complessità e della differenza finiscono per smarrire il centro gravitazionale attorno a cui una società multietnica può stare in piedi. Le democrazie, osserva Levi Della Torre, "sembrano meno sicure dei regimi autoritari nell'erigere monumenti nelle piazze" (p.163) ma non dovrebbero per questo rinunciare alle piazze (o alle agorà) come luoghi centrali di relazione o punti di riferimento. Destra e sinistra in tutta Europa (e sicuramente in Italia) sono oggi agli antipodi sotto questo aspetto. Le destre tendono avidamente a fabbricare idoli, a personalizzare il potere, a restaurare monarchie decisioniste, a innalzare bandiere. Le sinistre, che in passato non erano state da meno ma che ora appaiono orfane di vecchie centralità smarrite, tendono piuttosto a illudersi sulla possibilità di una complessità reticolare senza centro. Il punto di vista ebraico di Stefano Levi Della Torre ci invita in sostanza a non liquidare troppo facilmente, in nome dei buoni sentimenti, le pulsioni razziste e fondamentaliste che agitano il mondo e a considerarle come spie di problemi che la modernità universalizzante ha lasciato aperti. E nello stesso tempo ci suggerisce di non sbarazzarci in modo troppo sbrigativo dell'idea della centralità, in nome della lotta ai falsi idoli del passato, fossero essi la classe operaia, lo stato o il partito. La lotta contro il fondamentalismo non può essere condotta negando alla radice i suoi presupposti, ma piuttosto mostrando che "lo specifico di ogni identità e di ogni cultura non sta in qualcosa di cristallino e coerente che la distingua dalle altre; sta invece nel peculiare modÒ di combinare, in un groviglio che le è proprio, elementi che sono presenti in ogni altra cultura e identità, perché sono comuni alla condizione umana. E questa più veritiera percezione di sé predispone alla simpatia e alla pace" (p.144).

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