92 STORIEDALMONDO: PERÙ Dante Castro COMESCHEGGEDELCIELO a cura di AlessandraRiccio Circa due anni fa, nel caldo inverno cubano, mi è toccato di far parte della giuria del Premio Casa de las Américas, forse ancora oggi il più prestigioso premio letterario latino-americano. È abitudine degli organizzatori di riunire tutti i membri della giuria per una settimana in un luogo tranquillo per permettere loro di leggere i manoscritti ed emettere il loro giudizio. Si tratta di un tour de force non indifferente e ancor più nel mio caso (facevo parte della giuria per il premio aj racconto) data l'abbondanza di testi di autori noti o sconosciuti che da tutta l'America Latina erano arrivati all'Avana. Quando ho cominciato a leggere, nel ritiro piovoso e accoglienté' di San Antonio de los Baiios, il manoscritto di Tierra de Pishtacos, una risma di fogli scritti a macchina, rigorosamente anonimi e apparentemente innocenti, ho provato immediatamente uno straniamento totale: la natura cordiale di quegli alberi grigio-argento che si chiamano "yagrumas", i voli familiari di uccellini innocui, il mormorio del fiume fra le cui sponde non avremmo mai potuto incontrare un "shushupe" (il terribile serpente che teITorizza il protagonista di uno dei racconti) andavano a poco a poco scomparendo per far posto ad un'altra natura, ad un'altra umanità bella e terribile, quella che raccontava Dante Castro nei sei racconti di Tierra de Pishtacos. L'incisività di quei racconti, il linguaggio nel quale risuonano echi di altre lingue che lo arricchiscono, che lo cambiano, che lo espandono, furono la prima scoperta. Racconti della selva, della montagna o della città in cui l'autore inteITelaziona tempi e spazi, tradizioni immemoriali e nuovi miti terrificanti, sapienza ancestrale e la più ingovernabile follia. Un modo di narrare che riesce, attraverso uno stile che cerca e ottiene la semplicità, la drammatizzazione massima lasciandola venir fuori da un montaggio accumulativo che fa impennare improvvisamente il racconto verso il suo climax. E poi, seconda scoperta: la realtà narrata da Dante Castro, questo Perù di selve e _altipiani,di Lima "la horrible", di un immaginario popolare terribile e spaventoso e di una realtà concreta ancora più terribile e più spaventosa. Ancora più terribile del leggendario "pishtaco" (l'essere misterioso - bianco e con barba e capelli biondi - che sgozza gli indios per succhiarne il grasso) è il "tocotoco", il mostruoso elicottero artigliato che perseguita i guerriglieri come uno spaventoso uccello preistorico. Tanto o più spaventoso di quel subdolo serpente che è l'AIDS che irrompe nella vita - apparentemente civile - di un manager cittadino. E la terza scoperta, che è evidente nel bellissimo racconto La guerra dell'arcangelo Gabriele: se tolleriamo la violenza, se non ce ne liberiamo, non ci sarà salvezza. Presto o tardi, quelli che sono stati vittime, saranno carnefici. Tanto complicato, inverosimile e reale era il Perù che Dante Castro mi consegnava in quel manoscritto che sfogliavo come stregata a San Antonio de los Baiios. E qualcosa di simile deve essere successo ai miei compagni di giuria dal momento che abbiamo trovato subito la più facile delle unanimità in un concorso dove c'era un notevole numero di eccellenti libri di racconti. Poi - mesi dopo - abbiamo conosciuto Dante Castro: un giovane irrequieto, credo perfino discolo, amante di molte cose, ma soprattutto della letteratura. Ha l'età della rivoluzione cubana, un padre cacciatore, un'origine italiana da cui gli deriva il peso di essere omonimo del sommo poeta. Ma questo Dante peruviano, del Callao, non distribuisce né pene né castighi né premi, lui sospende il giudizio, non condanna. Come se la fatica di vivere in questo mondo fosse già un castigo sufficiente. Come se questo mondo - in sé- fosse L'Inferno. Dante Castro Arrasco (El Callao, Perù, 1959), narratore e poeta, si è laureato in Legge presso l'Università Cattolica di Lima. Ha scritto due libri di racconti, Ortorongo y otros cuentos (1986) e Parte di combate (1991) oltre al libro di poesie Ausente medusa de cenizas. Ma Orlando sapeva cosa fosse farsela addosso per la paura quando arriva il tocotoco? Lo sapeva da prima? Sempre così ben piantato sui suoi stivali di serpente, annusando l'aria che si filtra fra gli interstizi della selva. Poco amico delle chiacchiere e quando gli capitava di parlare di qualcosa, sembrava che stesse leggendo un programma politico da un libro stampato. Anzi, peggio: un linguaggio militare senza pietà. Oppure non diceva niente e si sentiva soltanto il sibilo del machete nella sua destra, tranciando le liane senza strappar loro un sospiro. E dato che rimanevamo soltanto noi due, mi pareva proprio che ci si dovesse trattare con più confidenza. Voglio dire: essere più umano, sbagliarsi qualche volta. Invece Orlando camminava sempre davanti a me, con i suoi due stivali di serpente ben calzati, dando colpi di machete e col fucile a bandoliera. "Non restare indietro Santos." Mi disse finalmente quella sera. "Passami il machete. Ormai devi avere le mani tutte piagate." Mi azzardai a dirglielo perché gli avevo visto cambiare di mano l'attrezzo già varie volte, finché si era foderato il palmo con unpezzo di canottiera. Forse era troppo orgoglioso per riconoscerlo, ma la verità è che si era tutto piagato. Prima che finisse di tramontare il sole riuscimmo a cacciare un armadillo. Poveretto! si era difeso con gli artigli, un animale di una altra epoca, una pallina con l'armatura. Qualche ora dopo cercavamo ancora di digerire l'armadillo crudo eruttando fra nubi di zanzare gialle. "Potevamo accendere un fuoco per cucinarlo" dissi. "No. Gli sbirri sono vicini." "Esagerato ... Come se ne possono accorgere?" "E il tocotoco?" sorrise sardonico. Il solo evocarlo ci faceva riflettere. Quel demonio che volava come se camminasse sulle chiome degli alberi, annusando come una fiera in agguato, liquidando la vita lì dove qualcosa si muoveva. E poi una lotta impari: noi qui, come formiche fra l'erba e il tocotoco sparando dall'alto. Tocotocotocotoco! Sopra il mondo. Per questo il giorno prima ci aveva lasciato orfani della nostra colonna. Un sacco di morti, spari di razzi che hanno ucciso tutti, meno due. E per essere più sicuri, raffiche contro i mo1ti che li hanno finiti di scempiare. In quei momenti uno si rende conto di che è fatto l'essere umano, sventrati con le viscere al sole mentre l'ombra degli alberi giocherella con le uniformi verde olivo. "Ormai è buio per il tocotoco" ho azzardato. "Non per quello. Ha il visore notturno." A tratti sentivo l'odore aspro delle sue ascelle. Anche l'odore del fango rosso che ci divorava i pantaloni fino alle cosce. Se non fossimo riusciti a trovare gente il giorno dopo, avremmo dovuto mangiare lumache. Le lumache sanno di bava, di erbe bollite e di corteccia. Ma lui aspettava in silenzio guardando il vuoto, come se volesse interpretare lo strepito delle cicale e dei grilli. "Siamo fottuti, Orlando. Non abbiamo nessuna speranza. Tanto vale cercare qualcuno che ci dia dei vestiti e tagliare la corda." Di nuovo il silenzio prolungato fra noi due. Forse cercava di
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