VEDERE,LEGGEREA, SCOLTARE Unascenadel film Tatiana, di Aki Kaurismèiki. . di continuare a vivere. E magari sperare che un incendio purificatore azzeri nella realtà, come avviene nella finzione, certe inutili conquiste. È, quella di Koncalovskij, una salutare sensazione di divenire che invece non possiede il fratello Nikita Michalkov, sempre più preoccupato di costruire un monumento furbastro all'anima russa, fatta di eroi puri e belli (come è appunto il protagonista del Sole ingannatore, guarda caso interpretato dallo stesso regista), capaci di realizzare l'encomiabile fusione tra valori della Tradizione e valori della Rivoluzione, se le degenerazioni staliniane non ci mettessero lo zampino ... Diciamolo subito: non ci vuole molto coraggio nel 1994 a fare un film dove si ricorda che la follia di Stalin ha portato all'annientamento di molti onesti cittadini sovietici, dove la delazione e il ricatto hanno trasformato uomini pacifici in killer spietati, dove. la violenza diventata ragione di vita ha fatto vittime innocenti. Tutto questo, Michalkov lo racconta con indubbia abilità (e una dose troppo massiccia di narcisimo: le prime scene, quelle in cui Sergej è ancora un eroe e "salva" i raccolti da una inutile esercitazione di carriarmati è un autentico monumento a lui stesso, salvatore della patria-e forse dell'umanità-ripreso mentre cavalca a torso nudo in mezzo ai campi che nemmeno Zdanov sè lo sarebbe sognato); certi squarci sono godibilissimi, come l'esercitazione con le maschere antigas; l'intrusione del passato e della gelosia nella pace familiare di una domenica d'agosto del 1936 deve molto a Cechov (e molto ripropone del suo spirito malinconico e insinuante), ma questo tripudio di colori caldi e un po' flou, di languidezze estetiche ed esistenziali finisce per trasformarsi in una melassa dove il trionfante ritratto di Stalin innalzato da un dirigibile (e ripreso con insistenza a tutto schermo nel pre-finale) finisce per fare da troppo facile discriminante - ecco i cattivi, ecco i buoni - lasciando tutti contenti per essersi leccati ancora una volta le ferite. Con più nichilismo, ma non minor spregiudicatezza, Quentin Tarantino utilizza a proprio vantaggio i limiti in cui si dibatte oggi il cinema hollywoodiano, che sembra incapace di credere davvero in quello che racconta. Nessun personaggio sembra tanto credibile da vivere per tutta la durata di un film, nessuno scenario sembra tanto sicuro da non richiedere rimandi e referenze, nessun regista sembra più capace di mettersi in gioco raccontando una storia. Perché spezzarePulp Fiction in tre storie che si inseguono e si incrociano con indubbia genialità, ma che lasciano nello spettatore la sensazione di una fastidiosa superficialità? Perché non credere davvero nel girovagare di due killer vagamente amorali e vagamente in crisi o in quella di un boxeur che tenta il colpo della vita ai danni di un gangster che voleva scommettere sulla sua sconfitta o in quella di una stupida coppia di rapinatori da snack bar? Qui non è questione di minimalismo, ma piuttosto di schegge, di blob, di gusto della sorpresa, colpi di scena su colpi di scena sempre più ingiustificati (il killer che dimentica la propria pistola), a volte divertenti (1'intervento di mister Woolf, interpretato da un godi bi!issimo Harvey Keitel), a volte molto meno (la sodomizzazione nel retro del negozio). Ne esce un mondo senza più capo né coda, dove le azioni non hanno senso né qualcuno riuscirebbe a darglielo, perfetto per i commenti domenicali del sociologo di turno ma francamente deludente per un regista che con Le iene aveva dimostrato una forza della messa in scena e soprattutto una morale della visione che qui sembrano un lontano ricordo. In Pulp Fiction, invece, i protagonisti non sono stilizzati o laconici come i personaggi dei fumetti (a cui il titolo fa esplicito riferimento: ma perché esibire continuamente le proprie referenze, le proprie pezze giustificative? Da cosa nasce questa insicurezza?) ma nemmeno sufficientemente ambigui da lasciare allo spettatore il compito di immaginare cosa c'è dietro il loro comportamento (come accadeva in America•oggi di Altman). Sono schematici e basta. Molto meglio, allora, il vuoto e lo schematismo di Aki Kaurismak:i e del suo Pida huivista kiinni, Tatjana/ Attenta al tuo foulard, Tatjana, presentato nella Quinzaine des réalisateurs, che racconta l'improvvisa vacanza on the road di due amici, un sarto caffè-dipendente e un meccanico che si vorrebbe musicista rock (gran bevitore di vodka), in giro per la Finlandia con la loro auto. Quasi nessuna parola, praticamente nessuna azione, solo uno sguardo acuto e disperato sulla vuotezza della loro vita che l'incontro fortuito con due autostoppiste russe sottolinea con una tragica ironia. L'homo finlandensis, come ce lo descrive Kaurismak:i, sembra essere sostanzialmente incapace di comunicare, schiacciato da una condizione esistenziale da cui non sa uscire ma di cui non capisce il senso. Lo sperimentano sulla loro pelle le due donne, che condivideranno i silenzi e gli imbarazzi di Valto e Reino, capaci solo di fuggire da una vita che li schiaccia (o che lascia loro soltanto il sogno di un'impossibile carriera rock). Una specie di deserto dell'esistenza, che però Kaurismak:i racconta con una dose improsciugabile di ironia, unica vera àncora di salvezza in un mondo dove per stirare una giacca spiegazzata si può usare la fiamma ossidrica e il materasso al posto del ferro da stiro e per mangiare si pagano i biglietti come al cinema. Oltre, naturalmente, ai due sentimenti insostituibili nella vita dell'uomo: l'amore (che spinge il meccanico ad andare a vivere con una delle due donne) e l'odio (che all'inizio del film dà al sarto la forza di chiudere la mamma in uno sgabuzzino per avere finalmente quella libertà- e quel caffè- che l'ossessiva matrona non sembra volergli concedere). È vero che alla fine del film, il sarto - rimasto solo - torna mogio al suo negozio e riapre lo sgabuzzino liberando la madre, ma la speranza che possa rinchiuderla nuovamente (e noi imitarlo con tutti i padri-padrone e le madri-matrone) dopo questo film non ci abbandonerà tanto facilmente.
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