Linea d'ombra - anno XII - n. 95 - lug./ago. 1994

86 VEDERE,LEGGERE,ASCOLTARE potevano più stare lì. "Io volevo avere almeno il cucchiaino da tè che usava mia madre, solamente un cucchiaino, uno solo, e nient'altro ...", dice un'ebrea polacca che si stabilì poi in Canada. Alcune sono microstorie di vicende che fanno intravedere, nelle pieghe dellatragedia, degli esiti assai singolari: "Gabriel Munwes, oggi Moked, ha vissuto l'occupazione dietro un armadio. C'era un'illuminazione ottima, e per intere giornate leggeva libri. Quando è uscito da dietro l'armadio aveva dodici anni. Da allora è un erudito. Ha preso il dottorato a Oxford, ha scritto saggi di stetica, su Kafka e Berkeley, è docente di filosofia all'Università Ben Gurion". · Ma attraversando la verde campagna polacca, dove si incontrano località che da secoli si chiamano Offesa, Vittima, Disfatta e dove furono inghiottiti milioni di ebrei, Hanna Krall non può fare a meno di commentare: "Qui non c'è mai stato l'inizio di qualcosa. Qui c'era la fine di ogni cosa". CANNESSENZALEZIONI PaoloMereghetti Difficile cercare di trarre una lezione, se non proprio una morale, dall'ultimo festival di Cannes. Basterebbe la mancanza dall'elenco delle palme di due veri capolavori come Ziré darakthtanzeytun/Attraverso gli oliveti di Abbas Kiarostami (a cui "Linea d'ombra" dedicherà uno speciale in uno dei prossimi numeri) e Trois couleurs-FilmRouge/Tre colori-Film rosso di Kieslowski per accorgersi che a trovare un filo non aiutano certo i premi, assegnati secondo la logica scontata degli equilibri internazionali ma soprattutto secondo l'estetica ancor più scontata del post-hollywoodianesimo, alla ricerca di un cinema chiuso in se stesso, contento della propria autoreferenzialità ma totalmente cieco rispetto al mondo che ci circonda (Pulp Fiction di Quentin Tarantino) oppure gratificato dal monumento al narcisismo che il cinema permette ancora di innalzare (Utomlionnye solntsen/Sole ingannatore di Nikita Michalkov). Persino Caro diario, che pure è una delle opere più interessanti girate in Italia nell'ultima stagione, stona un po' in quel palmares, lasciando il dubbio che la giuria l'abbia premiato più per non "sfigurare" davanti all'innamoramento collettivo della critica francese che per autentica partecipazione emotiva (altrimenti, come spiegare l'irritante premio alla sceneggiatura dell' ancor più irritante Grossefatigue di Miche! Blanc, che è la negazione esatta di tutti i valori in cui crede Moretti?). Aiuterebbe di più a capire dove si muove il cinema francese (e dove non si muove quello italiano) il lungo elenco di coproduzioni che le società transalpine hanno messo in campo: dall'Italia (Caro Diario e Una pura formalità) alla Russia (Kurotska Riaba!Riaba, mia gallina di Andrej Koncalovskij e Sole ingannatore di Nikita Michalkov) alla Svizzera e alla Polonia (Tre colori - Film Rosso di Krzysztof Kieslowski), al Messico (La reina de la noche!La regina della notte di Arturo Ripstein), alla Romania (Un été inoubliable/Un'estate indimenticabilediLucianPintilie)allaCambogia(Neaksre/Lagente' della risaia di Rithy Panh) per non citare che i film del concorso ufficiale. Difficile anche cercare linee di tendenza generali, che permettano di dividere i film dei paesi ricchi (dove dominerebbero "i capricci del caso e gli incastri del destino") da quelli dei paesi poveri (dove la lotta per l'esistenza obbligherebbe l'individuo a riscoprire "i valori fondamentali e le basi materiali dell'esistenza"). Sono divisioni affascinanti ma troppo generiche per aiutare davvero a capire il senso di molti film e troppo debitrici di una concezione dell'autore come unico responsabile ideologico del film, che non tiene conto dei sempre maggiori condizionamenti produttivi che il mercato mette in campo. Un solo esempio: lo ieratico e per certi versi affascinante La gente della risaia di Rithy Panh (storia di una famiglia la cui sopravvivenza dipende dal raccolto stagionale di riso e che perde il capofamiglia proprio al tempo della semina lasciando tutte le responsabilità sulle spalle troppo deboli della moglie e poi su quelle, insospettabilmente forti, delle figlie) dà a momenti la sgradevole impressione di essere :statopensato per il pubblico occidentale, per la sua voglia di esotismo e i suoi sensi di colpa verso la povertà del terzo mondo. La lotta impossibile di queste piccole donne contro elementi più grandi di loro (vento, acqua, fatica ma anche follia, povertà, destino) occupa l'occhio del regista con un'ossessività che rischia di diventare compiacimento e che costringe la sceneggiatura a strani salti (il ruolo degli altri abitanti del villaggio, presenti in alcuni momomenti della vita collettiva, svaniti in altri), come se il vero intento di questo esordiente regista cambogiano fosse quello di costruire un monumento al coraggio delle donne e alla loro costanza nel perpetuare una situazione di auto-sfruttamento che forse si potrebbe modificare (perché la solidarietà degli altri si dimostra solo a tratti?): come dire esotismo antropologico perfetto per i cinemini del Quartiere latino. Molto più interessante, invece, il ritorno di Andrej Koncalovskij in Russia, dopo il fallimentare soggiorno a Hollywood. Per questa specie di secondo esordio in patria Koncalovskij è tornato nel kolchoz dove aveva girato Storia di Asja Kljacina che amò senza sposarsi per vedere ventisette anni dopo come è cambiata la vita. Non molto verrebbe da dire, e quello che si è modificato è stato in peggio, come sottolinea il figlio di Asja: "Prima rubavano solo i membri del Partito comunista, oggi possono rubare tutti". Ma il pessimismo di Koncalovskij non ha niente di apocalittico o di qualunquista: il trattorista di ieri è diventato un piccolo imprenditore, il fannullone di ieri continua a essere un ubriacone anche oggi, la volitiva Asja era sola ieri e lo è anche oggi, più contenta di parlare con la sua gallina Riaba che con certi uomini incapaci di darle ascolto; l'amore per la terra che nel 1967 vivificava tutto il film nel 1994 è diventato il ricordo di una tradizione che sono in molti a voler conservare. Non ci sono eroi tutti d'un pezzo e naturalmente non ci sono nemmeno le certezze, che forse non ci sono mai state. Restano i segni, le icone di quel passato (i ritratti dei leader portati in laica processione, in una delle scene più divertenti del film), ma soprattutto resta la disponibilità a · confrontarsi con le contraddizioni dell'oggi, a non aver paura a guardare in faccia il disastro del loro (nostro?) presente, a difendere uno spazio minimo di libertà individuale, una propria dignità che rischia di alienare molte amicizie ma che permette

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