84 VEDERE,LEGGERE,ASCOLTARE loro miseria animalesca. Non per nulla quando i suoi due fratellini Pasqualino e Teresella dormono, "erano sempre sporchi e coperti di foruncoli, col naso pieno di catarro: quando dormivano, facevano un rumore strano, come se avessero delle bestie dentro" (p. 19). E vengono in mente loro, leggendo di quella "cosa gialla", di quel piccolo morto dei Granili: "La sua calma e la sua gioia, caratteristiche di quelli che hanno lasciato la vita, erano come sottolineate da un grumo di catarro, fermo sotto la narice destra, che faceva pensare a un abbandono e un silenzio che nessuno avrebbe più turbato" (p. 90). II silenzio cui sono destinati ad andare incontro non solo Eugenia Pasqualino e Teresella, ma tutti gli anonimi bambini del Mare. · Bambini spesso paragonati a topi grigi, a partire proprio dall'eroina degli occhiali, "così piccola e scialba, legata come un topo al tanfo del sua cortile" (p. 24), fino a quella moltitudine di bimbi che, a Forcella, sgomenta la scrittrice: "Ogni tanto ne usciva qualcuno da un buco a livello del marciapiede, muoveva qualche passetto fuori, come un topo, e subito rientrava" (p. 66). Solo dopo averci fatto conoscere il dramma individuale di Eugenia e della sua famiglia, e poi Anastasia Finizio, il fratello Eduardo con "il petto incavato come la luna" (caratteristica tipica dei residenti ai Granili) e la fidanzata Dora Stassano, zia Nana, e tanti altri singoli personaggi ben rilevati, si può guardare senza equivoci la folla, sottolineand ne con voce impassibile ma mai indifferente, dal di fuori, la terribile condizione. E proprio la morte è una delle presenze costanti del libro1 • dal silenzio del piccolo cadavere a quello della ragione, find'al colpevole silenzio della borghesia e dei ceti dirigenti che nel libro, appunto, non hanno neppure parola. Ecco perché questa Napoli è popolata da tante larve. In fondo al Mare, dunque, vi è un'alta moralità, e un grande coraggio. II libro fu scritto in controcanto alla lunga tradizione non solo letteraria che ha fatto di Napoli la città del "sentimento", del "cuore" e dell'"ispirazione": al contrario, l'Ortese affonda la sua scrittura in registri espressivi opposti, sfiorando a tratti l'impassibilità. Ma, nello stile, soprattutto nelle immagini, l'intento morale e la carica di sdegno si colorano di un sentimento quasi mai evocato ma proiettato di volta in volta sullo sfondo (quante volte il cielo, in queste pagine, assume colori metafisici e irreali!), sulle figure narrative (come dimenticare il profilo "dai lineamenti classici" di Compagnone? - p. 105), sulla musicalità del periodare, sul travestimento della critica intellettuale in metafore che esplodono a contatto di una realtà naturale. Una realtà inconsapevole di sé, e perciò malvagia: "Via via che se ne accostava l'ultimo limite, quel giardino diveniva più cupo. A un tratto, vidi questo. Cinque ragazzi di età indefinibile erano seduti su un muretto, aspettando con volti assolutamente inespressivi che la vettura passasse. Quando questa fu alla loro altezza, uno di loro si alzò in piedi, e rapidamente, imitato dagli altri, si sbottonò il davanti dei calzoni. Poi, tenendo il sesso tra le dita, come un fiore, si misero a correre sul muro, tentando di seguire il tram, con richiami striduli, dolenti, appassionati, che volevano attrarre la nostra attenzione su tutto quanto essi possedevano" (p. 103). L'Ortese si schiera dunque con chi pronunciava "per la prima volta, nella tradizione locale, parole come sesso in luogo di cuore, sifilide in luogo di sentimento, e ossessione come ispirazione" (p. 112); tutto il libro è costruito a partire da tale disincanto, che porta lontano. Ad esempio, alla coscienza del fatto che l'innocenza non esiste senza civiltà, che la pietà autentica non mira a consolidare le differenze grazie alle quali si esercita (fine perseguito invece in Un paio di occhiali dalla Marchesa D'Avanzo quando dimostra benevolenza verso ta piccola Eugenia), ma è praticata in vista del loro superamento. In fondo, il termine mai pronunciato nel libro ma latente, evocato per implicazione oppositiva in quella accusa tanto contestata alla scrittrice di naturalità deleteria di Napoli e dei napoletani, è cultura. Finché la cultura non raggiungerà i diseredati dei bassi e dei Graniti, e i loro attuali eredi, il mare continuerà a non bagnare Napoli. L'attualità del libro, purtroppo, sta anche qui. PADREE FIGLIO COETZEEDOSTOEVSK~ Paola Splendore Pietroburgo, 1869.Nei quartieri vecchi della città, unuomo si presenta alla porta di una pensione dove suo figlio ha abitato per qualche mese prima di morire incircostanze misteriose. La stanza in cui viveva è rimasta più o meno intatta; le sue poche cose sono in una scatola sotto il letto. Qui l'uomo, sopraffatto dalla malinconia e dagli odori che ritrova sugli abiti del figlio, si abbandona al dolore e a una fantasia di identificazione con il ragazzo morto. Un fluido misterioso lo trattiene in quella casa invischiandolo in un ambiguo rapporto con la padrona di casa e la sua bambina fatto di attrazione erotica, turbamenti, sensi di colpa. La visita a Pietroburgo si prolunga così di giorno in giorno, quasi senza motivo e senza che ci sia stata una vera scelta in tal senso. Nel tentativo di capire le circostanze della morte del ragazzo, il padre si mette sulle tracce di un gruppo te1Toristicocui il figlio era collegato; l'incontro con il leader del gruppo Necaev gli rammenta la propria militanza giovanile, ora rinnegata, e Ioporta a ritenere che il figlio sia caduto vittima dei suoi stessi compagni. Ora forse sta a lui tradirli: "Ho perso il mioposto nella mia anima, pensa ...Non riconosce niente di sé.... Ha tradito tutti e non vede come il suo tradimento potrebbe andare più a fondo. Se mai ha voluto sapere se il tradimento ha più il sapore dell'aceto odel fiele, questo è il momento" (pp. 219-220). E questo l'intreccio de Il Maestro di Pietroburgo (Roma, Donzelli 1994, pp. 224, lire 28.000), l'ultimo romanzo di J.M.Coetzee uscito in Italia, nella traduzione di Maria Baiocchi, in contemporanea con l'edizione inglese e a quattro anni di distanza da TheAge of Iron, non ancora tradotto in italiano. Protagonista del romanzo è Dostoevskij, già famoso all'epoca dei fatti raccontati, anni di crisi e difficoltà economiche continue, durante i quali vive in esilio a Dresda con la seconda giovane moglie e in cui scrive I demoni, l'opera-palinsesto alla base del Maestro di Pietroburgo. La presenza viva di Pietroburgo, coi suoi vicoli bui e le misere pensioni, i bambini laceri e affamati,
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