Linea d'ombra - anno XII - n. 95 - lug./ago. 1994

82 VEDERE,LEGGERE,ASCOLTARE Moralità e coraggio Luca Clerici Sono passati 41 anni dalla prima edizione di Il mare non bagna Napoli, e a rileggerlo oggi (nell'edizione Adelphi) sorprende la straordinariaattualitàdel libro. Non che siano mancate altre edizioni oltre alla prima del 1953, voluta da Vittorini per i suoi "Gettoni" einaudiani (nel 1967 Vallecchi lo ripropose in versione economica; nel 1975 è la volta della BUR, e nel 1979 An'naNozzoli appronta un'edizione La Nuova Italia, annotata), ma solo adesso il libro sembra aver ritrovato la forza di impatto originaria. Il 1967 è l'anno del successo di Poveri e semplici (Premio Strega), ed ecco la ragione del repechage vallecchiano, passato del tutto inosservato. L'edizione del 1975 si può considerare sintomatica del generale disinteresse verso l'intera produzione della scrittrice: insieme al nuovo, grande romanzo dell'Ortese, Rizzoli manda in libreria la ristampa economica del Mare, destinata come Il porto di Toledo a scomparire subito nell'indifferenza generale. A riprova di questa distrazione diffusa, valga un lapsus del prefatore della raccolta; secondo Giulio Cattaneo, con il Mare "la Ortese riemergeva d po un silenzio di anni (Angelici dolori era del '37)" (p. I): invece, fra Angelici dolori e il Mare va registrata l'introvabile raccolta di racconti L'infanta sepolta (Milano Sera, 1950). Quanto alla versione del 1979, va ricordata al!f1enouna variante significativa (l'Ortese ha sempre pazientemente rivisto e ritoccato il libro, come per l'attuale riproposta): Luigi Compagnone perde i connotati anagrafici e diventa Lelio. Una variante di cui non si è serbata memoria, nonostante il libro sia stato accolto oggi come nel 1953 da furiose polemiche centrate sull'ultimo capitolo, Il silenzio della ragione, nel quale la scrittrice avrebbe avuto il tortodi ritrarre inmodo irriguardoso, cioè con tanto di nome e cognome, gli intellettuali napoletani della cui condizione intendeva fornire un ragguaglio (Luigi Compagnone appunto, Raffaele La Capria, Domenico Rea e gli altri giovani dell'entourage di "Sud", la rivista di Pasquale Prunas). E, quasi tutte mosse a partire da tale insofferenza, ecco le critiche ricorrenti: il libro è disomogeneo, lo sguardo della scrittrice impietoso e gratuitamente crudo, la sua tesi interpretativa insostenibile, e così via. Finché la querelle serve a far parlare del libro, a spingerlo oltre gli angusti confini del ristretto mondo dei lettori abituali, tutto bene: il Mare si sta affacciando in classifica. Ma, viste le premesse dell'attenzione riservata tanto allora quanto ora al libro, bisogna sottolineare come in entrambi i casi Il mare non bagna Napoli non sia stato affatto interpretato iuxta propria principia, e cioè alla stregua di un'opera innanzitutto letteraria. A distanza di mezzo secolo gli strumenti di lettura mobilitati sono gli stessi, i giudizi si rincorrono, la polemica si ripete: una monolitica uniformità di atteggiamento un po' inquietante. E dire che di acqua ne è passata sotto i ponti, anche se forse non ancora abbastanza sotto quelli di certa società letteraria nostrana. In effetti, la prima ragione dell'autentico interesse del Mare sta in questo: è un'opera difficile da incasellare in un-genere letterario specifico. Anche se i primi due capitoli sono due novelle, non si tratta di un volume di racconti; non è una raccolta di reportage, anche se l'ultima parte si conforma abbastanza a tale modello espressivo. Quanto ai due pezzi centrali ( Oro a Forcella, dedicato al Monte dei Pegni, e La città involontaria), siamo in bilico fra resoconto giornalistico e invenzione letteraria. Per cercare di individuare l'indole del libro, conviene però leggerlo come un testo continuo, in cui le differenze e le somiglianze, calibrate e significative, concorrono a definire l'autentica originalità di queste pagine: narrazione e resoconto d'ascendenza giornalistica in effetti si confondono grazie anzitutto al filtro immaginifico che li deforma e alla qualità di una prosa sapientemente modulata ma sempre inconfondibile. Intanto, l'unità del libro è di carattere tematico. Le indicazioni topografiche disseminate in tutti i pezzi, i percorsi viari puntualmente annotati, identificano alcune aree di Napoli e ne escludono altre. Mancano le zone nobili, e quelle dei quartieri borghesi, mentre campeggiano i rioni popolari e quelli sottoproletari, con l'eccezione delle geografie piccolo borghesi e un po' periferiche, defilate, del Silenzio della ragione. Allo stesso modo, le classi sociali cui appartengono le figure del libro sono quelle infime e basse, con l'eccezione del ceto degli intellettuali il cui ritratto chiude illibro. Insomma, ali'Ortese non interessa affatto chi allora a Napoli davvero contava, né il volto mondano, nobile e ricco della città: Achille Lauro non è mai neppure nominato; Ansaldo, il direttore del "Mattino", compare solo una volta, di sfuggita, "uomo gigantesco" disceso da una "grossa macchina" (p. 157), disegnato con proporzioni stranianti tanto più eccezionali perché spiccano in una popolazione fatta di vecchi ingobbiti, bambini denutriti, nani e nane. Un paio di occhiali, il racconto d'apertura, contrasta nella forma con Il silenzio della ragione, che chiude il libro. La protagonista è una bambina, "quasi cecata" (p. 17) in attesa delle lenti miracolose che le daranno la possibilità, finalmente, di scoprire il mondo. Negli anni '40-'45 anche i giovani del gruppo Sud avevano coltivato l'illusione di vedere finalmente il vero volto di Napoli, inforcando gli occhiali della ragione, per svestire la città e i suoi abitanti, insieme al loro senso comune, da quella patina vischiosa che la opprimeva, il "colore", il folklore, imille stereotipi partenopei da depliant turistico. Fino a svelare la radice delJa condanna della città e della sua gente nell'accettazione acritica della loro presunta naturalità, una pseudo autenticità radicata nell'interiorizzazione di un'irnrnutabile identità pre-storica. Quando Eugenia apre gli occhi dietro alle lenti, inizia a vomitare: il basso in cui ha vissuto mostra un volto orrendo, la delusione è drammatica, le sconvolge il corpo e l'anima. Pure i ragazzi del Silenzio, ognuno in modo diverso, portano sul corpo e nell'anima i segni delJa loro disillusione: Compagnone è claudicante, Prunas sembra a tratti smemorato, Rea ha comportamenti furiosi e incontrollati; per un attimo il velo è stato scostato, la verità si è fatta vedere, ha lasciato il segno. Tecnicamente, il racconto d'apertura è di impostazione verista, impersonale, costruito con notevole sensibilità teatrale; al contrario, il soggettivismo pervade l'ultimo pezzo, al punto da deformare la realtà sulla quale lo sguardo ortesiano si posa. Ricordi pregressi si sovrappongono alle situazioni raffigurate in presa diretta, deformandole e sfumandone i contorni temporali al punto da suscitare nel lettore l'impressione di partecipare ad un'avventura tutta mentale, un po' allucinata

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