Linea d'ombra - anno XII - n. 95 - lug./ago. 1994

lo sguardo, le dita sottili di Dina hanno frugato tra le pieghe dello chador gettato su una sedia. Ha tirato fuori una chiave, una semplicissima chiave con un minuscolo nastro rosso. SohaeNada sorridevano senza dire nulla. Io non osavo comprendere eppure sì, non riuscivo a crederlo ma era proprio così, ognuna di loro si era trovata un amore, tu penserai che li abbiamo scelti molto giovani, è vero. Soha, persino Soha, siè messa con Ali, il figlio del mio vicino del piano di sopra. Addirittura Ali, che stupida sono. Le loro chiacchiere sottovoce, non avevo capito niente, i loro lievi sorrisi, le loro strette di mano ... La mia confusione era tale, sono scoppiata a ridere, le ho prese tutte e tre nelle mie braccia, nello stesso momento il tuono è esploso come uno specchio che si rompe in mille pezzi. Avevo dimenticato il mio appuntamento, volevo sapere, mi sentivo un'idiota, tutto questo tempo accanto ad una ribellione segreta, non mi ero acco1ta di nulla. Mi hanno raccontato la loro avventura dilungandosi, se la sono presa con comodo. I loro pensieri erano pieni della loro storia meravigliosa, non correvano più per strada, non correvano più dietro a ciò che accadeva fuori nello stesso istante. Svelavano tutto quanto il loro segreto, nei più intimi dettagli, era delizioso e nel contempo un po' irritante. Raccontavano l'amore difeso, protetto dalla cospirazione delle donne, più intenso per il gusto del pericolo, con la gue1Tache permette ... Soha e Ali, ali 'inizio salivano a nascondersi sul tetto, si erano amati sulle mie scale ... Ho avuto una stretta al cuore, nessuno è maestro, improvvisamente ho avuto voglia di rompere questa complicità di cui non mi sentivo parte. Mi sono alzata, leggero capogiro, ero molto in ritardo ormai. Soha mi ha levato l'impermeabile di mano, mi ha detto sai, la chiave è anche tua, ho pensato a mio marito in viaggio, tentazioni dimenticate, tentazioni perdute, ho avuto voglia di piangere. È una piccola camera ammobiliata, dalle paiti del giardino pubblico. Dovevo andar via, dovevo andare. Non avevano più rimedi, hanno mendicato un ultimo minuto, Nada si è annodata un foulard attorno ai capelli, è filata via. Bisogna aspettare che torni, ha mormorato Dina, bisogna aspettare, assolutamente. È riapparsa dopo un istante, senza fiato, ha gridato è fatta, se ne sono andati, è tutto finito ... Soha si è sentita male. Mi hanno abbracciata, ridendo e piangendo insieme, io non capivo niente, mi soffocavano, avevano perso la testa. Dina ha raccontato con una voce sommessa, stamattina c'è stato uno sbarramento per strada, in fondo al vicolo, una decina di uomini mascherati, che orrore. Fermavano i cristiani, li cercavano dappertutto, volevano salire. Gridavano fanno lo stesso dall'altra parte, uccidono i musulmani, sono loro che hanno cominciato, noi non facciamo che vendicarci. Mi sono sentita tremare le ginocchia, ne hanno preso uno sotto i miei occhi, l'hanno trascinato dietro al muro del cimitero, così. Tu potevi passare qui in qualunque momento, potevano salire a casa tua, sono corsa. La prima colazione a sorpresa era il solo espediente per non dirti nulla, per non spaventarti. Dovevamo proteggerti, fermarti, trattenerti fino a che lo sbarramento non si dileguasse, come fare, dovevamo raccontarti il nostro segreto. I capelli bianchi ... è sicuramente lo spavento, o forse è un lutto, madi che. Mi guardo, sono la stessa, no non lo sono, è stato troppo forte, troppo veloce. Mi hanno aperto la porta del loro mondo segreto, io ho capito di essere un'estranea, mi hanno salvato la vita, hanno aperto una faglia mme.- Rirnarrò nel quartiere, loro hanno tentato di dirmi qualcosa, ma non so ancora bene cosa. Copyright Sélim Nassib 1991. 77 Dan Shavit NELCAMPODI FRAGOLE traduzionedi Alberto Cristo/ori Dan Shavit, scrittore, giornalista, pittore e membro attivo del paitito di sinistra Meretz, è nato nel nord di Israele nel Kibbutz Kfar Szold, dove vive tuttora. Lavora come editor per lacasa editrice Hakibbutz Hameuchad ed è autore di vari racconti e romanzi. Da Anna and I (1986), che si svolge nel periodo compreso tra la guerra dei Sei giorni (1967) e quella dello Yom Kippur ( 1973), sono tratte le pagine che pubblichiamo. Sarei dovuto andare direttamente da Mamma per scusarmi di non essere venuto il giorno in cui era morto mio padre e per accontarle tutto. Lei avrebbe capito e perdonato. Ma non potevo andare a casa così. E forse questa era l'unica cosa da fare-entrare e racconfarle quello che era successo e mettermi dei vestiti puliti. Forse avrebbe capito e perdonato anche questo. Ma passai vicino alla casetta, agli alberi da frutta, all'immondezzaio e alla casa dei nostri vicini, i Grossenberg, e andai dritto verso il campo. Il cielo era chiaro, il campo più grande di come me lo ricordavo. Il sole picchiava, ma mi asciugava i vestiti. I miei passi si fecero leggeri e allegri, respiravo a pieni polmoni. Se avessi aperto le braccia, sai·ebberodi ventate ali bianche come quel ledi unacicognad' autunno, e io avrei spiccato lentamente il volo, guardando giù dal l'alto, felice come non ero stato mai. Avrei anche potuto unirmi alle cicogne nel loro viaggio verso le terre del Nord. Invece mi volsi verso lo stormo di grandi uccelli neri che saltellavano in mezzo al campo. Volevo scacciarli, addirittura punirli per la loro impudenza, perché approfittavano del fatto che Papà era morto. Adesso sono proprio dietro di loro, i loro gridi rauchi e improvvisi mi riempiono le orecchie. Non ho dubbi: uno stormo di corvi giganti sia disceso sul campo per beccare le grandi fragole rosse. Agito i pugni, abbassandomi al loro livello. Le teste velate di nero si voltano verso di me con calcolata lentezza: sono donne arabe, piene di rughe, con la pelle color cioccolato, gli occhi profondi, scuri e malevoli, i denti bianchi e aguzzi, dei tatuaggi ne1isulle guance. Le loro gonne ampie fluttuano al vento come le vele di una nave; se si sollevassero da terra, il loro volo sarebbe goffo e lento, come delle rane nere sbalzate in aria. Colgono le fragole con velocità frenetica, il sangue delle fragole cola dalle loro dita e, quando ne addentano una, schizza sui denti e sugli occhi. Innervosito dai loro sguardi gelidi, mi chino per aiutarle, cogliendo fragole nel campo di mio padre. Esse mi guardano meravigliate e non fanno domande. Hanno imparato a non fare domande, si limitano a mettere in mostra i denti bianchi e a emettere suoni gutturali, brevi e acutissimi; qualche dialetto tribale, che ai miei orecchi non sembra neanche una lingua. Perché seguo i loro passi? Certo il campo adesso è mio, e di mio fratello Yonatan. Come lui, posso stare a gambe larghe, con le mani sui fianchi, gonfiare il petto e sibilare brevi ordini tra i denti, alzare gli occhi verso una fila di colline che bacia l'orizzonte e svuotare la mente di

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