64 STORIE/ TREFULKA riprendere fiato, doveva disfarsi almeno perun attimo del fardello che la soffocava con la presenza di Vojtech. Esausta, si fermò davanti alle botti, tremante per il freddo. Poi sentì la porta del co1Tidoioaprirsi e quando si girò, vide Vojtech che scendeva lentamente verso di lei. La sua testa bianca sopra il colletto rotondo del maglione scuro librava come staccata dal corpo e portata sopra un vassoio da un cameriere nero. La signora Katonova emise un grido, non si mosse nemmeno, soltanto quando la colpì per la prima volta cercò di fuggire dietro le botti, ma l'uomo la raggiunse presto e battendola furiosamente fa fece stramazzare a terra. Non gridava, cercava soltanto con ogni forza di svincolarsi, ma invano. Per un attimo scorse il volto di Vojtech bagnato di sudore e lacrime; allora capì che non avrebbe smesso finché non l'avrebbe ammazzata e che neanche lei desiderava altro che éssere uccisa da lui, possibilmente presto. Poi vide al di sopra di lei la signora Hortova e il signor Ondrusek. Soltanto adesso gemette di dolore, quando cercarono di sollevarla. "Deve alzarsi" disse severamente la signora Hortova. "Non ce la facciamo a portarla su per le scale." Si alzò. "Venga" le ordinò la signora Hortova. Mugolava come un animale ferito, ma con il loro aiuto riuscì a giungere fino alla panchina della mescita. La fecero sedere lì, e la signora Hortova le rovesciò in gola una grappa. "Andate a casa" disse al vecchio. "Me ne occuperò io." Il signor Ondrusek afferrò il cappello. • "Tenga la bocca chiusa, Josef', gli disse la signora Hortova. "Non ha visto niente, sentito niente. Uno scandalo la porterebbe alla tomba." " Il signor Ondrusek annuì con il capo e dopo un istante lo si sentì già spingere i suoi cavalli davanti al ristorante e il fragore del pesante carro sulla strada. "Che scappi." "E già andato via", rispose la signora Hortova. "Lui è partito e tu ne uscirai fuori. Sei semplicemente caduta dalla scala. Succede nelle birrerie." Antonie sorrise con sollievo e negò con la testa. Era già decisa sul da farsi. La signora Katonova sapeva di avere gli occhi aperti, ma non riusciva a vedere né il soffitto, né la finestra. Aveva un dolore atroce al petto e le veniva da vomitare, ma non aveva nemmeno più la forza per quel movimento. Desiderava che venisse Vojtech a sedersi vicino a lei, fino alla fine. Da lontano giungevano i rumori della porta che si apriva, dei passi strascicati in cucina, il gorgoglio dell'acqua nel bicchiere ed un avido inghiottire. Karel aveva l'abitudine di bere di notte. S'avvicinò al suo letto e le pose la mano sulla fronte. Avrebbe voluto ringraziarlo, ma riuscì soltanto ad emettere un breve sospiro. Le avvicinò un bicchiere alle labbra e l'aiutò ad alzare la testa per farla rinfrescare. "Cerca di dormire, adesso", disse. Il dolore cedette un po', ma Antonie sentiva che era la fine. Mai più avrebbe visto il volto di Vojtech, candido e felice, mai più sentito i suoi baci sul collo. Non avrebbe più fatto all'amore con il marito fino a stancarsi, in un sonnacchioso pomeriggio domenicale, tranquillo e carezzevole. Mai più sull'uscio di casa avrebbe ravviato i capelli al figlio che mattina dopo mattina dimenticava di aggiustarseli. Mai più avrebbe lavato la lunga e magra schiena alla figlia piagnucolosa. La morte è un grande no, un cappio che stringe fino a soffocarti. La morte è il buio. Il volto di Antonie Katonova dopo la morte era sereno. Il suo ultimo pensiero era che per tutto ciò che aveva ricevuto dalla vita aveva pagato un onesto, sebbene caro, prezzo. Copyright Jan Trefulka 1977. STORIEDALMONDO: ITALIA Sandro Veronesi SORELLA Sandro Veronesi (Firenze, 1959), scrittore e giornalista collaboratore dell "'Unità", ha pubblicato recentemente Occhio per occhio (Mondadori 1992). Press0 Feltrinelli uscirà nel I995 il suo ultimo romanzo, Venite venite B 52. Avevo un marito e un amante. Mario, il mio amante, possedtva un lanificio e Andrea, mio marito, era il suo avvocato. Erano amici d'infanzia, e li avevo conosciuti insieme, all'epoca dei miei esami di maturità. Come fosse stato possibile, non so dirlo, ma da allora ero rimasta sempre divisa tra loro due, e sempre allo stesso modo, con Andrea legata alla luce del sole e con Mario di nascosto. Ero stata capace di sposare Andrea, un sabato, in chiesa, con Mario testimone dello sposo, e poi di sedere nelle prime file, tra gli invitati, un altro sabato quando Mario si era sposato con una sua dipendente.Nulla di tutto questo mi pareva squallido o insostenibile, pensavo semplicemente che quella fosse la mia vita, e la vivevo. Con Andrea, dopo sposati, eravamo andati ad abitare in un complesso edificato da una cooperati va e originari amen te destinato alle persone povere; poi, invece, gli appartamenti sono stati tutti comprati da gente come noi, avvocati, rappresentanti di commercio, perfino qualche giudice, ma non saprei dire se c'è stato o no qualcosa d'illegale. Vivevamo in quell'appartamento, io e mio marito, tranquillamente, direi agiatamente, con tutti i vantaggi offerti da una piccola città come la nostra e senza intenzione, ancora per un po', di avere figli. La mattina ci alzavamo presto, facevamo colazione leggendo i giornali, prendevamo accordi sulla giornata, quindi lui se ne andava al suo studio, o in tribunale, e io a tradirlo con Mario. Non tutti i giorni, certo; ma quando non ci vedevamo nella nostra mansarda in periferia io e Mario ci telefonavamo, parlavamo a lungo e finivamo giurando di amarci, sempre. Quella mattina, ad esempio, non avremmo dovuto vederci: lui aveva certi impegni di lavoro, scadenze di consegna, grane con le banche, e io avevo messo in programma una grande spesa al supermercato. Insieme a mio marito facevo colazione, riposata, tranquilla, leggendo "La Repubblica". Lui invece, come al solito, leggeva la cronaca locale su "La Nazione", e parrà assurdo ma io mi sentivo sollevata dal fatto che quel giorno non lo avrei tradito. Mi faceva tenerezza, ecco, così assorto nella lettura dei piccoli fatti cittadini di cui lui conosceva ogni minimo retroscena, e che ricorrevano poi nelle cause che vinceva o perdeva in tribunale e anche nelle conversazioni con i suoi amici, al Tennis Club, o al ristorante, la sera, se uscivamo. Sì, stavo provando tenerezza per lui, quella mattina, quando mi parlò. "Delfa Parigi" disse, alzando gli occhi dal giornale. "Non è quella donna che veniva a lavorare qui?" "Sì" risposi. "Perché?" "Quella che lavorava dai tuoi quando ci siamo conosciuti. È lei? Delfa Parigi?" "Sì, la Delfa. Perché?"
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