56 STORIE/TREFULKA che il primo e anche i] secondo avessero ancora gioito della sua tenerezza è del suo sorriso, dopo c'era stata soltanto la disciplina e la routine a dominare tutto, servivano tume le sue forze per mantenere la povera farnigha sulla superficie dell'acqua, e così, per come la ricordava la signora Katonova, era sempre sfinita, tJiste, angosciata. La mamma aveva approfondito soltanto il rapporto con Dio, con Gesù Cristo, si rivolgeva a lui·, perché era l'unico che potesse comprendere la sua sofferenza e il suo sacrificio. Poi era giunta la tubercolosi e una brusca fine. La signora Katonova pensò che forse era il destino delle donne della loro famiglia di crescere senza madri. Aveva ascoltato l'ultimo consiglio di sua madre: scegliere, fra tutti i corteggiatori che le si fossero fatti attorno, un giovane macellaio. Sotto l'effetto della guerra finita da poco, la mamma cercava fino alla fine di convincerla che non c'è partito migliore di un macellaio. "Almeno non vi mancherà mai da mangiare", diceva e sorrideva come se stesse godendo di un sogno già realizzato. Anche la signora Katonova sorrideva perché tutto sommato il consiglio della mamma era buono. È vero che Karel fu presto privato del suo negozio e del laboratorio, ma c'era bisogno di macellai qualificati; in realtà avevano abbastanza da mangiare, i soldi non mancavano e la voglia di vivere neanche, insomma stavano bene. Soltanto quando costruirono lacasa e i figli erano ormai cresciuti, cominciò ogni tanto a sentire una certa ansia, un'inquietudine; intorno a lei c'era un regolare e irrevocabile passagio di tutti, i figli andavano e venivano, il marito andava e veniva, sempre gli stessi movimenti, gli stessi piatti,la stessa stanchezza, gh stessi pomeriggi domenicali quando mandavano via i ragazzi e facevano all'amore, perché nei giorni feriali tornava troppo stanco o piuttosto intorpidito dalla troppa birra che si era abituato a consumare dopo il suo turno, in attesadell' autobus. Non che tornasse mai veramente ubriaco, non avrebbe osato davanti ai bambini, ma sentiva che la sua vitalità e l'ambizione virile, caratteristiche che più amava in lui, andavano svanendo poco a poco, sentiva quanto si fosse accontentato della propria sorte, nessuno l'aveva mai costretto a partecipare a delle riunioni, del giornale non aveva mai letto altro che la pagina sportiva; i governi cambiavano ma a loro non interessava, a malapena venivano a saperlo. Questo idillio cominciava a rivelarsi faticoso, non le andava più neanche di alzarsi e preparare la colazione. Perciò fece domanda come apprendista commessa, lavorò in vari negozietti e supermercati nei dintorni e alla fine accettò la gestione di quella locanda fatiscente dove faceva e da padrona e da serva, aveva le mattinate libere, poteva pulire la casa e cucinare e la sera tornarsene con l'ultimo autobus dopo le dieci. La domenica, il lunedì e il martedì Al Belvedere era chiuso, cosa che le faceva comodo e, nonostante si lamentasse del lavoro, le riempiva l'esistenza e non avrebbe saputo restare senza. Fuori stagione, i suoi clienti erano i camionisti che dalla Boemia e dalla Moravia andavano in Slovacchia, parcheggiavano nello spazio largo davanti al ristorante e apprezzavano il suo ottimo gulash, le buone salsicce e la scelta dei salumi e dei formaggi, volentieri raccontavano dei loro viaggi e la corteggiavano, prima seriamente, poi, quando capirono la sua inflessibilità, soltanto scherzando, tanto per divertirsi. D'estate la locanda era piena di villeggianti degh chalets vicini e di turisti, non passava giorno che la sera non si cantasse con la chitarra o la fisarmonica. La signora Katonova era orgogliosa di essere riuscita a fare del Belvedere un locale decente. Non le rincresceva la fatica per mantenere quel vecchio ambiente sempre accoghente e pulito, come pure se stessa, tuttora bella, come può essere bella e attraente una quarantenne non ancora sciupata da un lavoro particolarmente duro né dalle preoccupazioni troppo pesanti. I suoi clienti svolgevano volontariamente il servizio d'ordine, qui, stJ·anamente, ubriachezza pesante, baraonde e volgarità non incontJ·avano un terreno fertile, una vera rarità in quella regione. Forse grazie alla felice circostanza che la signora Katonova non avesse bisogno di tirare fuori dall'azienda delle cifre impossibili. Persino la signora Hortova, per la quale naturalmente ogni ospite nella locanda era ladro e impostore e che giudicava la scrupolosità dell'ostessa con un profondo disprezzo, cominciò a poco a poco a rispettarla e, per quanto possibile, vista la differenza di età e di esperienza, si stabilì fra le due donne una cauta amicizia. Dalla scala si sentì un fracasso, come se un sacco di pietre ruzzolasse giù; la figlia fece capolino di nuovo in cucina e la signora Katonova si accorse che cercava di mostrare solo la testa, probabilmente pernascondere che indossava il vestito più bello, quello della festa. Ne indovinava il significato e di nuovo si sentì in colpa per non lasciare al la figha nemmeno quel l'unico buon consiglio che invece le aveva lasciato sua mamma. Forse quella era l'ultima occasione per darglielo. "Marcella!" "Devo comprare qualcosa?" chiese la testa della figlia. La signora Katonova pensava febbrilmente cosa potesse consigliarle, non vi erano promessi sposi all'orizzonte, eppoi non sarebbe stato neanche quello il consiglio giusto che la figlia avrebbe potuto seguire, forse avrebbe potuto dirle di non cercare mai grandi felicità, perché la felicità dura soltanto quando ha l'aspetto della semplicità, delle piccole gioie quotidiane, del contatto, della tenerezza, della soddisfazione, perché la grande felicità non si trattiene, come non si trattengono le grandi acque, il grande fuoco o il grande denaro. "Marcella", stava per pronunciare il suo pensiero, ma quando vide la faccia sguaiata della figlia, le parole le si gelarono in bocca, e d'un tratto le sembrarono anche fuori luogo. "Se hanno le aringhe, potresti portarle, a papà piacciono." La figlia annuì e si ritirò nell'ingresso. Si sentiva che cercava le scarpe, poi sbatté la porta facendo tremare tutta la casa. In seguito, anche il cancello del giardinetto fece la sua trillata. Il signor Jasiczek andava e veniva dalla sua stanza nell'alcova come uno spirito. In casa non si vedeva e non si sentiva, neanche nella mescita si faceva vedere, non veniva a cena e, se non fosse stato per la sua Warsava parcheggiata davanti alla casa, la signora Katonova non avrebbe saputo nemmeno che stava in casa. Supponeva che il suo alloggio non gli piacesse nonostante la mattina dopo il suo arrivo avesse riparato quel che-··sipoteva riparare. Lavò le finestre, appese le tende di nylon, pulì il pavimento e verniciò addirittura di bigio argento il tubo ripugnante della stufa. Mise anche un bicchiere coi fiori sul tavolino. Nonostante si sentisse un po' imbarazzata e ridicola nel fare tutto questo lavoro, non poté non farlo. La signora Hortova venne a vedere la stanza, non disse assolutamente nulla, fece soltanto una smorfia di pietosa comprensione facendo arrossire la signora Katonova. Mentre stava pertomare giù in cucina con i] secchio dell'acqua, la vecchia donna uscì davanti alla porta dell'appartamento. "Gli metta qualcosa vicino alla finestra per sedersi, sennò passerà tutte le serate a letto" indicò l'angolo dell'ingresso, dove era 1iposto un lussuoso mobilio della villa vicino alla chiesa. Aiutò persino la signora Katonova a trascinare una massiccia poltrona nella stanza del polacco. La signora Katonova la ringraziò tentando di spiegare ciò che lei stessa non capiva. La vecchia donna la interruppe. "Non deve dirmi niente. Se s'incontrassero qui tutti quelli che ci hanno dormito senza essere sposati, ci sarebbe una baraonda, come alla fiera. La vita è una sola, signora Katonova. Ese riuscirà a vivere qualcosa di piacevole, sarà un dono miracoloso per il quale bisogna ringraziare il Signore Iddio."
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==