44 INCONTRI/ BERGER dell'esperienza umana, ancora relativamente inarticolati e che hanno bisogno che sia data loro la voce di cui sono privi. Un esempio molto ovvio è la trilogia. Se vogliamo parlarne per un momento, è chiaro che;'IntoTheir Labours non avrebbe potuto essere scritto da un contadino. Ci sono cose splendide scritte da contadini, ma in quel libro, nel mio libro, io cerco per tutto il tempo di porre ogni storia da un punto di vista globale. Per un contadino il centro del mondo è, per definizione, il villaggio e, per quanto egli possa avere una coscienza globale, il suo punto di vista è differente. Abbiamo dunque un soggetto a cui prestare ascolto, un soggetto che sembra essere privo di voce o magari non del tutto sprovvisto di voce, ma che potrebbe trovarne un'altra. Perché l'esperienza non entra così facilmente nell'arte, l'arte è molto esclusiva. Ci sono cose che la gente dimentica. Per la verità l'interastoriadell'ai1eèstoriadella lotta per portare nuove esperienze dentro l'ar1e. Scegliere di scrivere di un soggetto può dunque essere una specie di obbligazione, di dovere che ci si assume, magari penosamente e con difficoltà, e che non è detto trovi immediatamente la propria forma o, appunto, la voce giusta. Come avviene lafase dell'ascolto? Leggo molto e molto in relazione al soggetto di cui intendo scrivere. Ad esempio, mentre lavoravo aG., ho letto quanto più potevo sul mito di Don Giovanni. Ma direi che, in quel caso, l'essenziale è stato Mozart.Non so quante centinaia di volte ho ascoltato il suo Don Giovanni. È come entrare in un clima, in un mondo mentale e fisico, che va molto al di là della semplice ricerca sui testi che ti permette di familiarizzarti con l'argomento. Il problema vero, infatti, sono I~. voci: come trovar·ele voci necessarie a raccontai·e la storia che deve e vuole essere narrata. I tuoi scritti, tantosaggistici quantonarrativi,hanno unaqualità rara: sonopregni di compassione. Questononsignifica necessariamente che tu ti identifichicon le persone o le situazioni di cui scrivi, ma che il rapportoche hai con loro e con la vita è improntatoalla pietas. È unatteggiamentocheho riscontratoanche inquestigiorni, nel tuo modo di entrare in contatto con le persone, di guardare, di essere dentro alle situazioni. Sei d'accordo? Non so (Bergersembraandare acercareleparole inprofondità, in una specie di assorta e concentratissima immersione, ed è come se il respirogli si alterasse). Se è vero, si tratta evidentemente di una qualità, una qualità molto preziosa. Perciò non sta a me dirlo. Sta al lettore trovare o scoprire, oppure non scoprire. Perché sarebbe come chiedere a un pittore se ciò che dipinge è bello. Il rapportochehaiconciò che vedi,con lagente che incontri,non è esclusivamente intellettuale. È fatto di passione, affettività,curiosità. E la tua non è solo la curiosità dell'osservatore. Tu sei comunque dentro la scena. È a questo che io do il nome di compassione:essereo diventareparte di ciòche si vede e si osserva. In questo senso perché non ammettere che, sì, il tuo lavoro nasce dalla e attraverso la compassione? Provo, sì. O no, non è che provi, non è questo. È più forte di me. E credo che in questo ci sia qualcosa di molto interessante. Sono convinto che molto spesso il talento nasca da una debolezza. Per farti un esempio, avevo un amico, morto di recente, molto anziano, uno scultore spagnolo, anzi catalano, piuttosto conosciuto, di nome Fenosa, Apelles Fenosa, più o meno della generazione di Picasso, di cui pure era stato amico'. A quattordici anni era stato colpito da una forma molto rara di morbo di Parkinson e da allora il tremito non lo aveva più abbandonato. Era arrivato a più di ottant'anni, il che è piuttosto inusuale, tremando per tutta la vita come una foglia. Un giorno a scuola, quando aveva sedici o diciassette anni, il maestro chiese a lui e ai suoi compagni cosa volessero fare da grandi e lui si alzò e disse "voglio essere uno scultore". Tutti risero, perché sembrava così improbabile. E invece divenne davvero uno scultore, una sorta di scultore figurativo. Le sue erano soprattutto figure di donne e le sue sculture, le migliori tra loro, non erano molto grandi. Mezzo metro circa e esattamente come le foglie al vento, quasi che il suo tremito si fosse trasmesso alla materia. Quanto a me, anche se non è importante descriverla ora, ho avuto un'infanzia non troppo felice. La conseguenza - cosa che la gente stenta a credere, data la presenza che so di avere o visto che riesco persino a recitare, a salire su un palcoscenico davanti a centinaia di persone e a tenere la loro attenzione-è che di fatto, nonostante la presenza che mi riconosco, ho un senso della mia identità personale molto, molto fragile. Non sto dicendo assolutamente che ho crisi d'identità, è soltanto che il mio senso di me è molto vago e molto impreciso. Ed è la ragione - e questa è la mia debolezza - per cui credo di riuscire con tanta facilità, non a identificarmi- visto che lacapacità d'identificazione viene da un senso forte della propria identità - ma a prestarmi oppure a lasciarmi entrare nella pelle, nell'esperienza e nella vita di chiunque altro. Può darsi chequestafacoltàdiacome risultato quella che tu chiami compassione. Perché, quando scrivo, ed è per questo che lo trovo tanto faticoso, ho contemporaneamente due atteggiamenti, due posizioni: uno consiste nell'esercitare intensamente la vicinanza di cui ho parlato, l'altro nella capacità quasi immediata, se necessario, di farmi regolarmente indietro e di guardare con occhio critico e da lontano. E forse questa qualità è anch'essa necessaria a ciò che chiami compassione, perché altrimenti pensare di parlai·e dall'interno di qualcuno che non sei tu non implica compassione. Ci sifonde ... Esattamente. E questo ha a che vedere anche con il problema a cui accennavo prima: per poter scrivere bisogna trovare le voci con cui parlare. Il libro che sto scrivendo ora, To the Wedding, è cominciato veramente solo quando ho scoperto che la voce narrante poteva essere soltanto quella di un cieco. La questione è sempre la stessa: trovare la voce della storia. Ti faccio un esempio: in Once in Europa (secondo volume della trilogia Into Their Labours), c'è una storia, quella che dà il titolo al Libro,che ho cercato di scrivere per cinque o sei anni. Non in ogni suo dettaglio, ma certamente la parte che riguarda la piccola fattoria ormai assediata dalla fabbrica e fa figura della donna. Non ci riuscivo, non ci riuscivo assolutamente. Poi un giorno, in paese, ho incontrato una donna che conoscevo piuttosto bene, perché ero andato spesso a trovarla sugli alpeggi dove all'epoca aveva quattro mucche e una dozzina di capre e eravamo diventati amici. Aveva circa la mia età. Un giorno dunque la incontro e le chiedo come sta e lei "Ah, sapessi cosa ho fatto! Per la prima volta in vita mia, ho volato". E io "Dove sei andata? a Parigi?" E lei "No, no, no, no, non in aereo, con un deltaplano". E io "Come?". Allora aveva circa sessant'anni. Adesso c'è molta gente che va a lanciarsi da lassù con il deltaplano. La vista infatti è bellissima e le correnti d'aria molto favorevoli. E lei mi racconta di questo giovane che, una volta arrivato in cima, la vede che fa il formaggio e le dice "Beh, nonna, ti piacerebbe venire con me?" Al che lei risponde "Sì, quando?". "Domani" dice lui ed è andata proprio così. Lei mi descrive l'esperienza e mi dice che è stata assolutamente fantastica, la più bella della sua vita. Tanto che lo fa una seconda volta. Racconta, ridiamo e poco più tardi mi rendo conto che la mia storia può essere narrata solo da una donna che sta facendo il volo. È da quel momento che so di essere in grado di seri verla, perché ho trovato la posizione e la prospetti va da cui farlo e la voce da usare, la voce di una donna in volo, nell'aria.
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==