42 INCONTRI/ BERGER un'energia che è lì per incontrarsi con l'energia contenuta nello sguardo che la osserva. Proviamo a immaginare per un istante che questa energia sia un raggio: ogni volta che questi due raggi si toccano, succede qualcosa. Può capitare che non si tocchino, come succede quando si parla senza essere ascoltati. Questo vuol dire che l'atto di guardare è di fatto un incontro attivo, non unilaterale, reciproco. Il che naturalmente corrisponde alle teorie misticofilosofiche rimaste in vigore fino al diciottesimo secolo, direi più o meno fino a Cartesio. Secondo tali teorie, le apparenze andavano lette come messaggi, messaggi celati, contenuti o portati dalle apparenze, e il visibile era in un modo o nell'altro un segno dell'invisibile. È solo con il trionfo del positivismo che tutto questo viene oegato, ma in realtà fino al diciannovesimo secolo le arti visive si sono basate in modo del tutto consapevole sull'idea che le apparenze fossero una specie di linguaggio, un linguaggio che aveva alle spalle qualcosa, creato per esprimere. Il problema era che si trattava di un linguaggio dotato di una certa coerenza, ma non di una coerenza totale. E questo credo corrisponda alla piccola cosa che stavo dicendo a proposito di quello che ci succede quando disegniamo. Gli occhi dunque non si devono occupare soltanto di percepire le apparenze, ma anche di raggiungere un qualche tipo di comprensione. Se si pensa anche solo per un istante a quanto succede quando si guarda un volto o lo si disegna! C'è una meravigliosa frase di Walter Benjamin: "Le linee del volto sono i segni di appuntamenti non rispettati, di decisioni non prese". Uno dei tuoi ultimi libri si chiama appunto Keeping a Rendezvous, rispettare gli appuntamenti. Ti riferivi alla stessa frasi? No. Non in modo conscio. È una frase che conosco da anni, ma non è ad essa che ho pensato quando ho pensato al titolo del libro. Non consciamente. Da dove è venuto allora? Non lo so. Davvero, non lo so. Ma sai, quando si scrive capita molto di rado di sapere da dove vengano le cose. Ritorniamo per un momento agli occhi: che cosa accade quando si sogna e, pur avendo gli occhi chiusi, si vedono le cose con una precisione incredibile? Io credo che molto spesso l'ispirazione venga dal sogno o da stati che sono paragonabili al sogno. Ecco perché è così difficile dire da dove arrivi. Non credo che gli occhi siano semplicemente gli organi della percezione ottica, pur essendo anche questo. Sto parlando di un'esperienza che è comune a tutti, soprattutto in rapporto alla natura. Anche se non è detto che si guardi la natura come faceva Cézanne, cionondimeno, di fronte al mare, un tramonto, un semplice albero, dei fiori in un campo o a una cascata, ci si accorge che si sta guardando qualcosa che rimanda a qualcosa che è al di là di ciò che si ha davanti agli occhi. E se è vero che gli occhi sono, come tu dici, il mio primo strumento, lo sono solo in questo senso. Infatti, quando scrivo - fiction, non saggistica - ciò che ho in mano all'inizio, ancor prima di cominciare a scrivere, non è un'idea, non sono parole, non è propriamente neppure un'immagine visiva. È piuttosto qualcosa di preverbale e che ha in sé una certa organizzazione: una .sorta di melodia, che però non è neppure musicale. Se dovessi descriverla, direi che somiglia a una melodia, ma è completamente muta. E questa costellazione, termine che preferisco a motivo, è il principio ispiratore o il principio guida di ciò che cerco di scrivere. Soltanto quando ciò che scrivo - a questo punto servendomi, anche se con enorme difficoltà, di parole o usando immagini, immagini visive, che poi tento di tradurre in parole - corrisponde a quella costellazione, posso accettarlo. E naturalmente, soprattutto all'inizio, diciannove volte su venti la corrispondenza non c'è e io rifiuto quel che ho fatto finché non la trovo. Significa che scrivi e riscrivi e chepuò capitarti di abbandonare alcune cose, idee, progetti? No, non abbandono progetti. Ma abbandono spesso pagine e invenzioni. E riscrivo in media sette o otto volte, il che spiega perché mi ci voglia tanto per scrivere un libro, persino se il libro non ha più di centocinquanta pagine. Perché vuol dire che ne ho scritte in ogni caso almeno ottocento. Rileggi molto mentre scrivi? Sì, enormemente. Sottovoce? No, beh. Sottovoce? Le risposte sono due. Quando leggo a me stesso, di fatto dico le parole tra me e me, non mi limito a leggere con gli occhi. E mi piace molto anche leggere a voce alta ad altri. Si tratta di una cosa che, superato un certo stadio, mi è estremamente utile. A prescindere dalla reazione dell'altra persona. Quando si legge a voce alta si capisce perfettamente che cosa non funziona. Per la verità io leggo a voce alta anche a me stesso. Non letteralmente, ma in effetti pronuncio le parole. Sono convinto che, se qualcuno mi guardasse farlo, vedrebbe le mie labbra muoversi. In questo senso disegnare e scrivere sono attività che hanno molto in comune, che condividono una grande fisicità. Sì, l'elemento fisico è molto forte in entrambe. Parlo naturalmente del rapporto che ho io con la scrittura, perché ci sono scrittori, grandi scrittori, che invece si fanno guidare dalle parole. L'esempio più ovvio e più rilevante è Proust: anche lui eraguidatoda immagini, ma erano le parole a portarlo dove voleva andare. Quanto a me, non mi sembra in nessun caso che siano le parole a condurmi. Le parole sono come una strada che ho alle spalle, non di fronte. Ti consideri un romanziere? No, non mi piace il termine romanziere. Si tratta di un concetto molto ottocentesco, che non ho mai amato. Penso di essere un raconteur o uno storyteller. Sì, proprio questo. Vuoi dire che ti piacciono le storie, le persone ... Sì I fatti? I fatti? Sì, ma mi piacciono nello stesso modo in cui mi piacciono gli alberi o le montagne. Non per se stessi. Inventare o trovare il vero nome di un luogo o di un negozio non fa nessuna differenza reale; si tratta di una strana cosa tra me e la mia immaginazione, non di uno scrupolo di verità o di una semplice questione di accuratezza. Anche quando scrivi di un quadro, di una fotografia o di un'immagine, continui a essere, in un certo senso, uno storyteller, non un saggista. È per questo forse che in Italia non si è ancora capito cosafai esattamente. È difficile definirti, classificarti. Potresti spiegare come affronti le cose che già esistono, ad esempio i quadri? In cosa consiste la tua capacità di trasformare l'osservazione in storia? Sì, ma non comincio mai con quest'idea. Perché mi sembra che la prima cosa da fare davanti ad un'immagine che già esiste sia semplicemente di essere aperti ad essa, senza idee precostituite di nessun tipo. La prima cosa da fare è essere aperti alla sua energia e tale energia viene dalla costellazione dei suoi punti focali. Poi, dopo avere in qualche misura percepito e sentito quell'energia, può forse esserci una storia, o almeno ciò che chiamiamo una storia. A quel punto, se si tratta di un dipinto o di una fotografia, per verificare la
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