venivano a comprare a Trieste le scarpe e le brache che non avrebbero mai trovato nelle vetrine vuote dell'economia postcomunista. Io guardavo questi giovani mentre montavo le interviste (taglia-· vo tutte quelle 'non itTedentiste' un po' come faceva la TV di Belgrado), ma capivo che dietro quei simboli, quel la voglia di menar le mani, c'erano altri malesseri e altre passioni che non la voglia di riconquista di una te1rnche quei giovani conoscevano solo attraverso i racconti dei nonni, una catena di città fantasma, abbandonate da 50 anni, e abitate spesso _dagente che di italiano aveva ormai solo il cognome e spesso neanche più quello. Molti istriani, infatti, da quando il regime di Zagabria aveva cominciato a far pressione, avevano scelto un nome croato e davanti alle telecamere si vergognavano di parlare italiano. La TV rese in poco tempo verosimile quello che per 50 anni era stato ritenuto impossibile. Riavere l'lstria, riavere Zara. Moltissimi laggiù avevano le case dove erano nati. Alcuni avevano passato anche 10 anni nei campi profughi. Per la prima volta si sentirono appoggiati. Per la prima volta, quello Stato che aveva firmato la capitolazione di Osimo, stava dalla loro. E stavamo dalla loro anche noi, la televisione. Alcuni intellettuali come Magris o Tomizza segnalarono il pericolo, me nessuno gli diede ascolto. Soprattutto nessuno diede loro un microfono. Ambra li liquidò come 'prostatici serbo-progressisti'. Anche Tudjman, dall'altra parte della frontiera, 'usava' il DALL'ITALIA13 'problema dell'Istria' peroffrire un nuovo nemico ai croati sfiniti da una guerra persa e da un'economia al collasso. La 'krajna' era ancora in mano ai serbi. Un tentativo fallito di riconquista aveva aggiunto altri l .000 morti ai 20.000 del '91. La convivenza con i musulmani in Bosnia, dove si continuava a combattere, scricchiolava già allora, e i dalmati, se avessero potuto, si sarebbero sganciati da Zagabria, esattamente come gli abitanti dell'Istria sia italiani che croati. Ci voleva un pretesto. Un incidente che offrisse al Presidente, sempre più solo e dispotico, l'occasione di dimostrare che era ancora lui l'erede del Bano Jelacic, il difensore della Croazia. A offrirglielo furono tre ragazzotti da 16 a 20 anni. Tre skinheads di provincia che per sentirsi più forti indossarono le insegne tricolori della destra nazionale, passarono la frontiera, raggiunsero Portale e gridando 'Istria libera' e 'Forza Italia' si misero a staccare i cartelli in croato all'ingresso della città. C'era il sole e sulla piazza della città fantasma i vecchietti sorseggiavano il vino nuovo offerto da un venditore ambulante, discutendo delle 'penzie', le magre pensioni che passava Zagabria. 'Cosa fate?' gridarono ai ragazzi. E quelli 'Facciamo quello che avreste dovuto fare voi. Ci riprendiamo quello che è nostro'. 'Viva l'Italia! Viva l'Istria italiana!' 'Kako i bi lo?' (Cosa è successo?) fece i I venditore croato che era • Soldato bosniaco o Sorojevo. Foto di EnricoDognino/Grozio Neri.
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