Linea d'ombra - anno XII - n. 94 - giugno 1994

-~~1"'.0)1' 66~, VEDEREL, EGGEREA, SCOLTARE Furore distruttivo e autodistruttivo, dunque, come cifra ben presente in tutta la raccolta (si veda per esempio come si conclude, in modo davvero jacoponico e forse anche reboriano, Se volessi un 'altra volta ...: "Ecco scrivo, cari piccoli. Non ho tendine né osso/ che non dica in nota acuta: 'Più non posso'./ Grande fosforo imperiale, fanne cenere"): e non solo perchécome è a questo punto evidente-agisce in Fortini la vergogna, il senso di responsabilità e frustrazione propri dell'intellettuale che vive nel Nord del mondo e percepisce l'imbarbarimento del proprio ruolo storico. Ma anche in un senso più astratto, l<1tamenteconoscitivo. Nel suo Mysterium coniunctionis Jung cita un passo dell'alchimista belga Dorneus (cioè il discepolo di Paracelso Gerard Dorn, vissuto alla fine del '500), secondo il quale "La putrefazione chimica [deve essere] paragonata allo studio dei filosofi perché, allo stesso modo che dal loro studio essi vengono messi in condizione di conoscere, così dalla putrefazione le cose sono condotte alla dissoluzione, a cui viene paragonata la conoscenza filosofica. Infatti, come attraverso la soluzione i corpi vengono dissolti (solvuntur), così dalla conoscènza vengono risolti (resolvuntur) i dubbi dei filosofi". Sciogliere qualcosa in un liquido, dissolvere una sostanza, insomma, vuol sì dire decomporne la materia costitutiva, distruggerne l'originaria compattezza: ma questo è solo il primo momento di un processo che deve portare a un'unità di tipo superiore. . .. Ora, a me sembra che proprio a partire da un quadro teorico di questo genere discenda un vero e proprio dilemma, un conflitto interno alla raccolta, che anche stilisticamente agisce in almeno due direzioni tra loro parecchio differenti: procedere da un lato per negazioni e per interne fratture del tessuto poetico, fino a produrre dissonanze ritmiche e stilistiche vicine come si è detto a una pronuncia in falsetto; e dall'altro cercare di costruire sopra la negazione un percorso esemplare, legato a una sapienza basata sui valori della pietà, della fede (cioèfides in senso classico) e del ricordo. Su un versante c'è un tessuto di sarcastiche autonegazioni, spesso addirittura installate nella memoria (mi ha colpito in È il temporale l'immagine dei "ragni" dell'infanzia che "a me/ promettevano aiuto", ma in realtà "Lavoravano / per questo infame idillio pazienti"; oppure in Ruotare su se stessi il "vero" diventa ironico appannaggio di chi ormai non è più); e, sull'altro versante, c'è il ritrovamento di una precaria compattezza fra passato, presente e futuro, che individua la sua garanzia anche "politica" proprio nel ricordo (d'altronde si tratta di poesie della "eccentrica" quarta sezione, come Questo verso, Il custode e La salita, già edite nel '90, prima dunque del trauma bellico, e che richiamano da vicino la lezione di Vittorio Sereni). Là agisce il furore dell'allegorista benjarniniano, intento a decostruire ogni certezza, salvo ritrovare nel frammento una briciola di verità superstite (come si afferma nel Dramma barocco tedesco: "smembrare l'organico, per poi leggere nei suoi frammenti il significato vero"); qui invece opera un dialettico più avveduto e prudente, in qualche modo lukacsiano, che ambisce a una totalità di ordine superiore, a una sintesi dotata di un valore che resta. E con fatica, in effetti, proprio a completamento della quinta sezione, ecco che Fortini cerca di chiudere il cerchio richiamandosi alle origini della sua poesia (cita infatti il primo verso della sua prima raccolta, Foglio di via), evocando una disperata immagine di resistenza ("Non possiamo più [...] ritirarci") e chiedendo Fotodi GiovonniGiovannetti. infine a noi lettori: "Proteggete le nostre verità". È vero: ma intanto contribuiscono a negare o a sfumare la solennità della richiesta le ultime quindici pagine del volume, fatte di poesie assai diseguali e talvolta dominate dal registro del pastiche; e qui, tra le altre immagini raggelanti e/o ciniche, la più memorabile è quella del poeta postmoderno operatore di computer, che al suo strumento si rivolge per chiedergli oblio cancellazione entropia, nei termini tecnici del suo specifico linguaggio ("dissigilla i files, selezionali, annientali. / Don 't save, don 't save !Inizializza di netto!/ Di qui toglimi giovane, contro la sera lenta"). A qualcuno potrà anche non piacere una tale deriva nichilista: e comunque, ripeto, la si deve inquadrare entro unpercorso dove talvolta domina anche l'istanza diametralmente opposta. Ma, soprattutto, a farci avvertiti e prudenti circa le intenzioni dell'autore opera un alto tasso di convenzionalità formale, che forse mai come in questa raccolta Fortini ha utilizzato per proteggere la sua verità e per definire con la maggior nettezza possibile il suo coinvolgimento nel mondo (Composita solvantur chiama infatti esplicitamente a raccolta molti classici della tradizione italiana: da Jacopone e Ariosto, giù giù fino a Manzoni, Leopardi, Carducci, Saba e Sereni). Il nulla, ci dice il poeta, riesci a nominarlo solo se possiedi qualcosa, se dall'informe sai in qualche modo distinguerti: "i globi chiari, i lenti globi/ templari cumuli dei venti/ non sono me". Su un piano eminentemente letterario, il senso della poesia fortiniana è molto chiaro, e quest'ultima raccolta non può che ribadirlo in maniera - se possibile - ancor più nitida. Il problema vero è ovviamente un altro, ma è situato appunto altrove: e là, sempre ovviamente, ci siamo solo noi.

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