VEDERE,LEGGERE,ASCOLTARE 65 LABUONACOSCIENZAPOETICA DI FRANCOFORTINI PaoloGiovannetti Sarebbe un grave errore, mi sembra, leggere Composita solvantur di Franco Fortini (Einaudi 1994, pp. 86, L. 12.000) in chiave innanzi tutto personale, autobiografica. Certo, quando un poeta sta fisicamente molto male e pubblica un volume il cui titolo suona (o può suonare: vedremo che non è un significato poi così pacifico) "si dissolva ciò che è unito", in chi legge scatta un inevitabile meccanismo associativo, che riconduce subito al privato della malattia ogni sintomo testuale in tal senso pertinente. Ma si tratta con ogni evidenza appunto di un errore, di una distorsione interpretativa non del tutto lecita, perché al centro del libro c'è, in modo tanto insistente come forse mai era accaduto nella produzione poetica fortiniana, il riferimento a un preciso e anzi ben delimitato avvenimento storico, quello della guerra del Golfo. Il fatto è verificabile, intanto, sul piano strutturale: cinque sono le parti in cui il volume è diviso (la sesta è un'Appendice, ma Fortini stesso in nota dichiara che l'opera è chiusa dalla quinta sezione), e la terza è appunto costituita dalle Sette canzonette del Golfo. La raccolta converge dunque verso questo nucleo traumatico, fulcro e culmine di senso, che fa seguito alla prima parte, L'animale, dove biologia e storia, natura e cultura si scambiano coattivamente le parti, e alle Elegie brevi, in cui prevale la vicenda privata del quotidiano; mentre seguono le Canzonette, la sezione La salita, dominata dal motivo della memoria (ma in effetti forse la parte più ricca di spunti non univoci), e infine Composita solvantur, "inevitabilmente" - si direbbe - condizionata da una volontà di commiato e di recapitolazione. E poi, a dirla rutta, le Sette canzonette sono un vero e proprio pugno nello stomaco, tanto che gli amanti istituzionali della liricalirica hanno parlato di "non-poesia", certo per indicare l'impurità programmatica, il tono artificioso, da falsetto sarcastico, di testi che sconsacrano ogni residua illusione sull'utilità e l'attualità del "canto". In doppi senari decisamente bamboleggianti anche grazie alle rime baciate (il testo è Lontano lontano ...), Fortini ci comunica che "Lontano lontano si fanno la guerra. / Il sangue degli altri si sparge per terra"; e chi come lui - partecipe anche emotivamente per essersi ferito un dito con una rosa- vorrebbe far qualcosa per chi muore, si sente impotente ("E se anche potessi, o gentiindifese,/ho l'arabo nullo! Ho scarso l'inglese!"), e l'unica idea che gli viene è la seguente: "Potrei sotto il capo dei corpi riversi/ posare unmio fitto volume di versi". Anche la lingua della tradizione letteraria, qui fluita soprattutto nella sua versione ottocentesca a metà strada tra l'aria operistica e la solennità dell'inno sacro manzoniano, viene evocata per trame ·effetti sarcastici e proverbialmente bassi, vibranti però spesso di un'indignazione che si materializza, per esempio, nella seriazione degli epiteti, allor-chési mostrano gli "imperatori" americani che "Già fulminanti tra fetori e fumi/ irte scagliano schiere di congegni:/ vedi femori e cerebri e nei segni / impressi umani arsi rappresi grumi". E mentre un'umanità lontana (paragonata alle pere di Ah letizia..., che vengono assaltate dalle "formiche in fila") brucia, si spappola e si raggruma, qui, a nord, dall'altra parte del mondo, c'è un vecchietto fantasticante intorno a una ciclista, "bella/ [...] di zinne e deltòidi ribaldi/ e d'altro che acre un dì mi fu diletto"; anche se ormai nessun piacere, dice il soggetto lirico, "trovar non so che me attonito scaldi". Ed è un sarcasmo autodistruttivo privo anche di una giustificazione conoscitiva del tutto soddisfacente, se è vero che nell'Appendice, dopo una prima ripresa del tema belljco (Ancora sul Golfo, che è costruito sullo schema metrico della Pentecoste manzoniana, adibito a cantare "dei lordi eserciti / gli insepolti metalli"), giunge la palinodia di Considero errore..., dove chi parla dichiara tutto ciò che è avvenuto durante la guerra "incomprensibile e senza nome", e considera fallimentare il progetto d'una poesia comica e satirica fondata sull'"ironia lacrimante". Certo, conosciamo Fortini, e sappiamo che per lui la categoria della mediazione, la necessità di rilanciare dialetticamente la contraddizione (anche e magari soprattutto nei propri confronti), è un'operazione in qualche modo necessaria; e perciò il sarcasmo appassionato intorno alla guerra, il Kitsch mortifero dell'opuleno uomo occidentale (che a Disneyland si guarda lo Jungfraujoch, così come in televisione contempla ammirato l'efficacia delle bombe intelligenti sui corpi di qualche iracheno), devono andare incontro.a una ridiscussione che ne mostri la relatività, che ne superi l'assolutezza emotiva. Prendiamo innanzi tutto a esempio il titolo, che Fortini stesso ci dic½significare "si dissolva quanto è composto, il disordine succeda all'ordine (ma anche, com'era nel vetusto precetto alchemico, si dia l'inverso)". Ora, è probabile che l'interpretazione in qualche modo più "classica" di un simile latino possa e debba essere molto vicina a un "si distrugga l'ordine costituito", "si dissolva la pace" e insomma "che scoppi una guerra". Il conflitto, dunque, non è solo subìto, e cioè passivamente e coattivamente rispecchiato, ma è pure affermato, posto al centro di una volontà di negazione epocale. E in questo senso acquistano un notevole valore allusivo le immagini di animalità e avvelenamento, da sempre peraltro frequenti nella poesia di Fortini, ma qui coniugate con una particolare efficacia. Il paradigma di questo fenomeno, nell'attuale raccolta, è fornito da una poesia già ampiamente conosciuta e commentata (e addirittura già antologizzata) quale Stanotte ...: allegoria, a me sembra, della reversibilità del male, di un avvelenamento (di un danno forse storico) che ucciderà inevitabilmente anche l'uccisore, distruggendo "Il piccolo animale sanguinario" che ~a fatto scempio di una domestica "bestiola". Analogamente, gli enormi gatti selvatici della Turingia che inAusgrenzung divorano durante la guerra dei Trent'anru il nobile signore von Lynx finiscono per introiettare la maledetta ferocia di un'umanità imbarbarita, e si trasformano in seivagge linci. Ma il culmine del processo ha luogo non a caso in una delle Canzonette, l'agghiacciante Se mai laida ..., dove sono messe in parallelo le vicende della "laida" lumaca, avvelenata dalla "metaldèide", e quella del poeta che di sé dice: "Lento a dèi crudeli e ignoti/ va il mio bruno ultimo fiele"; e dunque spera che la sua "ansia fedele" distrugga con la propria morte l'avversario. È ovvio tuttavia anche che, evocata tale prospettiva, Fortini la neghi, mostrando l'inutilità incomprensibile delle deiezioni corporee, la fusione anagrammatica e luttuosa di vomito e (mi) voti, di materia e di destino: "A che vomito mi voti, /cara meta che non ho?".
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