Linea d'ombra - anno XII - n. 94 - giugno 1994

50 POLONIA/ PIESIEWICZ SULCINEMA spettatori, ma è un pubblico molto specifico, prevalentemente giovane - oppure è gente che si sente impotente, senza nessuna influenza sugli avvenimenti ... Le devo dire del resto che mi sono occupato un po' di politica, ma credo di avere un'influenza sempre minore nella realtà. Non capisco più alcuni fenomeni, non sono in grado di identificare certi processi. Proprio per questo non sarà da noi che verrà fuori il tipico film politico. E neanche un film che sia una dichiarazione nei confronti di qualche gruppo politico o di qualche linea politica. Del resto non credo che l'arte possa avere grande influenza sulla politica o sui nostri destini. L'arte può provocarein un preciso momento e in una precisa situazione - riflessione, dialogo, ricordo. Sicuramente scrivendo o facendo film bisogna ricordare alcuni valori fondamentali, la responsabilità della sorte altrui, la dignità umana. Se faremo ancora qualcosa prima della fine di questo XX secolo, certamente non abbandoneremo questa linea, questo modo di pensare, di reagire, anche se non sarà più di moda. Invece non farò sicuramente nulla se constaterò o intuirò di parlare a sproposito, cioè di adoperare un linguaggio non più comunicativo, oppure di parlare di problemi che non importano più a nessuno. Succede così - e spesso è imbarazzante, talvolta un po' ridicolo, talvolta invece un po' tragico - con la gente del vecchio sistema, a volte anche molto brava, che vuole far sempre sentire lo stesso disco. Ovviamente non nel senso politico, ma nel modo di comunicare, di reagire, addirittura di raccontare barzellette. • Come commenta le ripetute dichiarazioni di Kieslowski che sostiene di non essere un artista ma solo un artigiano dal mo,_nento che i veri artisti non pongono solo domande ma rispondono'anche a esse, cosa che lui non saprebbe fare? A proposito di porre domande e dare risposte, Kieslowski evidentemente adotta una formula che è la definizione stessa, la base e il punto di partenza della vera arte. Si serve di una furba schivata, ma infatti è così come in un noto detto di Singer: quando venne a trovarlo un giovanotto per domandare come si scrivono i libri, rispose: "Gira, guardati attorno, registra tutto, descrivi scrupolosamente ma non trarre conclusioni, lascialo fare ad altri". Solo che il problema consiste appunto nel fatto di saper osservare e osservando fermare un fotogramma, cerca.redi evocare qualcosa, di saper entrare nella situazione di un altro uomo ed evidentemente desc1iverlo. Se parliamo dell'rute di Kieslowski bisogna ricordare che non si può entrare nel mondo dei suoi film di oggi senza conoscere tutti i suoi documentari, che sono veri e propri capolavori. Mi sembra, comunque, che proprio su una rivista italiana la dichiarazione di Krzysztof di essere solo un artigiano possa essere intesa in modo credibile e reale. Ci fu nella strnia d'Italia un periodo in cui semplici artigiani che giravano carichi di pennelli nei loro fagotti, si rivelavano grandissimi a.1tisti.Secondo me, è un fatto molto positivo che un uomo come Kieslowski dica così, perché una tale posizione gli permette di fare quello che fa in modo molto concreto, onesto e professionale. Però, ripeto, una chiave per la sua opera, per capire come mai sa creare così bene una verosimiglianza psicologica, toccare l'essenza dell'uomo, vedendone l'aspetto biologico, gli atteggiamenti, le reazioni, si trova nei suoi documentari. Alcuni mesi fa ho rivisto un suo film del '72, Pierwsze milosc (Il primo amore) - un documentario o meglio paradocumentario, un film bellissimo che parla delle vicende di una giovane coppia che vuole sistemarsi; fa vedere il loro matrimonio, la nascita del bambino. Kieslowski per un anno e mezzo li ha accompagnati con la cinepresa, è un film veramente bello che non è invecchiato affatto. Nell'85, invece, qualcosa in lui si è rotto, qualcosa è cambiato, non gli bastava più l'osservazione bella e autentica della condizione umana e dei suoi destini, unaosservazione documenta.iiao paradocumentru·ia.Qualcosa è successo nella sua vita, una cosa molto personale, che Io ha spinto ad entrare nell'ombra-per così dire-del mistero della condizione umana, e a cercare di toccare il metafisico. Seguendo il dibattito sul ruolo dell'intellettuale in democrazia si può arrivare alla conclusione che esso diventa sempre più marginale. Come spiega questo fenomeno? Forse per un intellettuale è più favorevole una situazione autoritaria, in cui il suo posto e i suoi compiti siano più evidenti? Qui bisogna assolutamente sgombrru·e il terreno da equivoci. Il sistema è stato eccellente per gli intellettuali di corte, mentre per gli uomini liberi nella mente e negli atteggiamenti, per le persone intransigenti è stato ovviamente un sistema distruttivo. Bisogna ricordare chiaramente che nel periodo del socialismo reale in Polonia. 1 'arte svolgeva un ruolo molto importante e la situazione degli artisti non era cattiva, anzi era decente; che si sono pubblicati molti libri interessanti, sono state scritte delle bellissime poesie. Nessuno però si chiede quanti talenti siano stati sprecati, quanti uomini grandi, stupendi-scienziati, intellettuali, artisti-semplicemente non siano potuti entrru·e in contatto con la gente a cui era indirizzato il loro lavoro. Mi sembra che la più grande tragedia del socialismo reale polacco sia stata appunto la distinzione dei caratteri, di una ce1ta fermezza, la creazione di un fenomeno chiamato una volta da Andrzejewski "il diavolo sulla penna" - e cioè l'autocensura. Certamente, si dice spesso che la comunicazione con quelli che aspettavano i risultati del lavoro intellettuale o creativo fosse più netta, perché bastava strizzare leggermente l'occhio per entrare in contatto. Ma questo non è vero. Era più facile ma al tempo stesso era un contatto falso, avvolto nella menzogna. Pochissimi sono gli autori che hanno saputo muoversi in modo da poter "esistere" allora e che sono rimasti "veri" fino ad oggi. Sono così tra l'altro i documentari di Kieslowski che del socialismo reale dicono oggi molto di più di parecchia saggistica. Tornando alla domanda sul ruolo dell'intellettuale, dirò semplicemente che ho una brutta esperienza degli anni Sessanta-Settanta, Ottanta e anche Novanta. Il problema sta forse nel fatto che i cosiddetti intellettuali di razza non si sono mai contaminati con la responsabilità delle proprie azioni? Io, ad esempio, sono un uomo la cui formazione è ba ata soprattutto sull'esperienza di avvocato, dove ogni mia decisione, ogni atto significava prendere delle responsabilità per qualcuno. È un'attivitàmoltosimileaquelladel medico,quandoci si trova in una situazione concreta e bisogna prendere una decisione. Nelle azioni degli intellettuali che vogliono occupru·si di politica, invece, noto una certa irresponsabilità. Quando scrivo un saggio, o un libro, oppure tengo una conferenza, in linea di massima creo un mondo chiuso; quando invece in modo cosciente voglio provocare con la mia attività delle decisioni, degli effetti sociali e politici, devo prendermene la responsabilità. La tentazione di creare delle utopie, bisogna dirlo oggi, nel '94, è un fatto molto pericoloso; io rimando sempre la gente ai giornali del periodo tra il 1934-39, rimando alle esperienze clialcuni intellettuali nel periodo della grande rivoluzione bolscevica, alle esperienze della costruzione del sistema del socialismo reale in Polonia nella seconda metà degli anni Quaranta e negli anni Cinquanta. Esistono alcuni valori, un certo ordine assiologico, che sono invariabili, stabili e io mi domando se tutto questo sia stato capito dai cosiddetti intellettuali. Ho molti dubbi al proposito. Viviamo in un periodo di enorme caos, ipocrisia e cinismo. A cui aggiungo anche una certa assolutizzazione della praticità. Sono molto preoccupato perché c'è odore di una nuova utopia nell'aria, proprio per via del caos. Penso allora che il ruolo dell'intellettuale in questo momento debba essere quello di una consapevole coscienza e analisi del passato e di basare le proprie azioni semplicemente su

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