Linea d'ombra - anno XII - n. 94 - giugno 1994

22 VEDERE,LEGGERE,ASCOLTARE necessaria. Ma lasciamo almeno che la resistenza che viene mostrata sia mostrata come oscura, come qualcosa che non deve essere in nessun caso confusa con l'aura del successo! Schindler's List è in parte un film necessario sull'olocausto. Disgraziatamente è anche un film sull'illusione contemporanea che col denaro si possa tutto. Copyright John Berger 1994. John Berger (Londra 1926) è autore di romanzi, racconti, saggi, poesie, sceneggiature e testi teatrali tradotti in varie lingue, nonché giornalista, disegnatore e documentarista. In Italia sono usciti finora solo G. (Garzanti 1974) e Le tre vite di Lucie (Gelka 1992). DIARIDA SARAJEVO GianniTurchetta ,. Ormai la bibliografia sulla ex-Jugoslavia conta parecchi titoli, fra saggi di storici o di giornalisti, raccolte di articoli, ristampe e nuove traduzioni di narrati va (a cominciare dal grande Ivo Andric). Ma credo che un posto a parte lo meritino due diari, usciti di recente, e di peso specifico intellettuale molto diverso. Il primo è il Giornale di guerra. Cronaca di Sarajevo assediata (con una nota di A. Sofri, Selleria, pp. 169, lire.12.000) di Zlatko Dizdarevic, responsabile della redazione di guerra del quotidiano "Oslobodenje" (cioè "Liberazione"), uno dei simboli di Sarajevo e della sua disperata resistenza. Oggi noi ci siamo abituati ad immaginare la Bosnia come il regno dell'orrore, come un paese non troppo lontano fisicamente ma anche un po' mitologico, carico di fanatismi medioevali, di odi tribali, di una cultura delle armi per noi incomprensibile. Ma la Bosnia, e Sarajevo in particolare, prima di diventare "il più grande campo di concentramento del mondo", era anche un luogo di straordinaria tolleranza, un laboratorio di convivenza multi-etnica, e, come ci ricorda Dizdarevic, "con Gerusalemme, la sola città al mondo in cui vivessero in armonia i membri delle tre maggiori religioni del pianeta". Persino oggi, dopo oltre due anni di bombe e di cecchini, a Sarajevo abitano ancora serbi ortodossi, croati cattolici, musulmani ed ebrei. "Oslobodenje", che ha continuato e continua avventurosamente ad uscire, non ha mai smesso di rappresentare questa identità mista. Non a caso i bombardamenti dei serbobosniaci si sono accaniti sul palazzo del giornale, proprio per cancellare la voce e la memoria di un paese che per suo conto avrebbe avuto poco a che fare con gli steccati etnico-religiosi entro cui è stato rovinosamente sospinto. Nelle pagine introduttivedel suo diario Dizdarevic dà una spiegazione tutta da meditare sul conflitto bosniaco, negando senza mezzi termini che sia una vera guerra civile. Al contrario egli sostiene che si tratta di "un'aggressione portata dall'esterno: dalla Serbia e dal Montenegro, con l'aiuto delle forze nazionaliste estremiste della Bosnia-Herzegovina stessa". In Bosnia "dei nazionalisti morbosi, dei carrieristi politici e degli uomini irrealizzati( ...) si sono resi conto che, per 'ragioni superiori', il mondo non sarebbe intervenuto se essi si fossero gettati alla conquista violenta delle loro aspirazioni aggressive. E non si sono sbagliati". L'atto di accusa di Dizdarevic contro l'Occidente è violentissimo e, purtroppo per noi, pieno di sgradevoli verità, che non troveremo mai nei nostri giornali e telegiornali. Egli racconta per esempio di caschi blu che giocano a calcio fra i carri serbi che bombardano, riferisce episodi in cui gli inviati dell'ONU fanno commercio non solo degli aiuti ( "aiuto umanitario" Dizdarevic lo scrive sempre così, tra virgolette), ma anche della vita degli assediati, vendendo per cento marchi un "passaggio" in autoblindo fuori dalla cerchia dell'assedio. Naturalmente la testimonianza del direttore di "Oslobodenje" è duramente di parte, e offre il fianco a qualche critica, soprattutto per la tendenza a idealizzare un po' il passato e a separare con eccessiva schematicità i "buoni" e i "cattivi". Ma la sua interpretazione ha due meriti inequivocabili. Anzitutto ci impone di smetterla di concedere alibi ali' Occidente in generale, e in particolare ali' ONU, ridicolizzata a ripetizione dalle astuzie elementari e dalle scoperte bugie di Milosevic, vero regista del conflitto, ora miracolosamente trasformato, per la nostra rimbambita opinione pubblica, in fautore della pace. Gli eventi bosniaci hanno impietosamente messo a nudo le debolezze e incertezze politiche dell'ONU, di cui l'inefficienza militare è solo un fatale riflesso. In secondo luogo Dizdarevic dà un durissimo colpo a molte illusioni (soprattutto, ahimé, di sinistra) sulle possibilità di imporre "pacificamente" ai serbo-bosniaci di Karadzic una tregua prima, e una pace non disastrosa per i musulmani poi. Purtroppo la recente vicenda di Gorazde, il concentrarsi di forze intorno all'obiettivo strategico di Brcko, e la stessa precarietà dell'attuale (maggio 1994) tregua a Sarajevo non lasciano molti spazi all'ottimismo e alla speranza. Degli orrori bosniaci ci parla anche la piccola (classe 1980) Zlata Filipovic, nel Diario di Zlata. Una bambina racconta Sarajevo (Rizzali, pp.166, lire 24.000). I giornali hanno parlato pochissimo del Giornale di guerra di Dizdarevic e molto del Diario di Zlata, sfruttando lo scontato parallelo fra questo diario di bambina e quello di un'altra, più famosa adolescente: "Alcune persone - scrive Zlata - mi paragonano ad Anna Frank, e ciò mi sgomenta. Ho paura di fare la sua stessa fine". Ecco, accogliamo subito il suggerimento di Zlata, ed evitiamo perciò di fare paragoni tanto impegnativi. I doveri del recensore ci impongono però di fare un altro confronto, quello fra i due diari in questione, curiosamente paralleli non solo per l'argomento, ma anche per il nome dei due autori: sia Zlatko che Zlata derivano infatti da "zlato", che significa "oro". Posso confessare che provo un profondo imbarazzo di fronte al compito di "recensire" due libri che così imperiosamente ci chiedono di non considerarli solo come "libri", come carta stampata, vista la realtà di cui ci parlano. Assolviamo brevemente a questo dovere, peraltro con molta ingenerosità verso la povera Zlata, che per conto suo non aveva tanto pensato di scrivere un libro, quanto piuttosto di raccontare sé a se stessa, come succede quasi a tutti a quell'età. Il joumal di Dizdarevic è invece una densa riflessione sulla storia presente, sulla vita e la morte, sulla politica, sulla distruzione di una città e di una cultura. Dizdarevic ha una scrittura serrata, nervosa, che intreccia ali' oggettività del resoconto una forte inclinazione alla meditazione metafisica, e una costante tensione verso l'aneddoto paradossale e l'arguzia, specie neIJadirezione dell'humour nero, così tipico dei sarajevesi e ora paradossalmente ispirato dal

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