Linea d'ombra - anno XII - n. 93 - maggio 1994

6 DOPO LEELEZIONI bottega, di fazione, dei piccoli gruppi-e le camarille che sembrano oggi tenere in scacco la forza della sinistra. La fatica che c'è voluta per costruire l'ovvia aggregazione dei progressisti è stata il segno più desolante di questa situazione. E lo spettacolo pagliaccesco che si sta mettendo in scena mentre scrivo intorno alla vicenda del gruppo parlamentare unico mostra definitivamente come i primi nemici della sinistra siano ormai i suoi dirigenti. Gente capace di disperdere quel poco di fiducia che sulla proposta progressista si è concentrata, di irridere l'impegno generoso di chi l'ha sostenuta, persino di costruire sul niente il proprio potere. Proprio sul niente, alla lettera: come insegna la vicenda dei gruppi parlamentari che nasceranno da idee, marchi, sigle "di sinistra" che gli elettori hanno bocciato. Qutllo che sta accadendo ora, nel momento decisivo in cui la sconfitta andrebbe meditata e usata, dimostra insomma che la storia degli errori della sinistra non finisce qui. Di fronte a una maggioranza vecchio-nuova che ha subito svelato la brutalità delle sue intenzioni, sarebbe il momento di affermare la propria capacità di opposizione. Ma benché non abbia mai governato, la sinistra italiana non sa fare opposizione. Non l'ha imparato coltivando illusioni consociative, naturalmente. Ma neppure nascondendosi per decenni, e i più tenaci e stupidi ancora ora, dietro la ferrea sicurezza delle proprie ideologie, quelle che si sentono confermate dallo 0,5% in più e si leccano i baffi pensando alle mobilitazioni di piazza "contro la destra". Nulla di tutto questo accadrà: la sconfitta tociale della sinistra è diventata anche sconfitta politica e tornerà a ripercuotersi con ancora maggiore gravità nelle piazze, nei posti di lavoro, nef mondo dell'informazione, nei luoghi dei nuovi conflitti e dovunque si è tentato di sperimentare forme di aggregazione, di mobilitazione e di soluzione dei problemi collettivi. Forse disperazione e disgregazione provocheranno sussulti, ribellioni, scontri, ma sarà l'ultimo pegno che si pagherà alla sconfitta del vecchio. Eppure se c'è una speranza, solo da lì, dalla dimensione minima e diffusa di questa sinistra orizzontale, può venire e solo per essa vale la pena di lavorare. Per creare lì l'opposizione intransigente ma non ottusa ai valori che il paese dei Berlusconi nei prossimi anni coltiverà. Ma ancora prima per reimparare a conoscere questo paese e la sua gente, per riuscire a combatterla, a comunicarci, a convincerla. Lontano da gruppi dirigenti grotteschi e incapaci, fuori dalle culture attuali della sinistra, contro persone, scelte, parole, idee che sono peggio della sconfitta. Foto di Umberto Battaglia/Daylight/Grazia Neri. EADESSO?ENOI? GoffredoFofi Povere cassandre periferiche, inascoltate e detestate, eccoci oggi a soffrire di aver avuto ragione nell'indicare mali e complicità - nel campo non secondario di cui ci siamo sempre occupati, quello di una cultura intesa come sistema di valori, e di modelli antropologici, non come degustazione e vom.itazione di prodotti di consumo per ceti più alfabetizzati di altri ma non meno insulsi o non meno corrotti di altri. Abbiamo avuto ragione anche nell'indicare nuovi quadri di riferimento, antichi principi da riassorbire e mettere a frutto, insiem.i di comportamento altri da quelli dom.inanti (che erano gli stessi infine per la destra e per la sinistra, spesso sponsorizzati e dissodati per primi dalla cultura della sinistra)? Di questo non possiamo aver prove se non "a contrario", nella scarsa presa che nella sinistra dominante queste nostre ossessioni hanno avuto. Segno che avevamo ragione? Ci consola forse il fatto che, mentre la sinistra "maggiore" ha perso e lo sa, noi non abbiamo perso semplicemente perché non gareggiavamo per il potere, perché il compito che ci siamo scelti, da sempre, è ben altro che quello del potere? A rigor di logica, hanno perso i politici e i loro fedeli e non noi che siamo, semplicemente, dei non-vincenti. Questo non ci consola, ma rimane il fatto che al nostro ruolo minoritario siamo abituati e non abbiamo mai ambito ad averne uno superiore. Noi crediamo, insomma, nella necessità di m.inoranze attive che realizzino nel loro piccolo progetti anche molto ambiziosi, nei quali il rapporto tra teoria e pratica sia il più stretto possibile, andando in questo contro la logica tutta italiana (e di sinistra come di destra) del dire a e fare b. Vediamo nelle elezioni di marzo la parola fine di tutta una storia. Il "comunismo italiano" (versione addomesticata dalla spartizione del mondo indue siglata da Ursse Usa cinquant'anni fa)è morto alle ultime elezioni definitivamente; la sua "egemonia" si è spompata via via in una nuvola di chiacchiere e compromessi. Chi scrive ha avuto - e non è certo il solo - davanti a sé per tutta la vita adulta come spettro e nem.ico il Grande Pai1ito, rispetto al quale ogni sua azione, ogni suo progetto, ogni suo scritto era costretto in qualche modo a definirsi- "ricuperato" o osteggiato a seconda dei casi, ma pur sempre condizionato da quel mastodonte burocratico e insulso, massiccia costruzione di false coscienze spesso solamente corporative. Che quel colosso sia crollato ci lascia certo più liberi, e questo va affermato con una qual gioia pur nel disastro di questi giorni, che ci è tuttavia comune. Questo ci dà anche responsabilità molto maggiori che in passato; questo obbliga a molto le minoranze attive che non hanno vergogna a sentirsi tali e che credono nel radicamento, nella possibilità del contagio e nel "ben fare", ma anche nel bisogno di mettersi insieme e di ricostituire gruppi vasti, coordinati tra loro, sulla base di idee e progetti latamente (ma non troppo) comuni, quindi anche a partire da una conoscenza, da una teoria, da un sistema di valori, da un progetto e infine da una utopia comuni. Ci si può aspettare ben poco da rifondatori dell'ultimo o del penultimo momento che ieri hanno affondato la sinistra con la loro

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==