Linea d'ombra - anno XII - n. 93 - maggio 1994

VEDERE,LEGGERE,ASCOLTARE 71 medica a quello della professione legale, con un percorso che tocca settori e istituzioni chiave della società americana. La collocazione del personaggio in ambiente sociologicamente definito è uno dei punti di forza della sua narrativa; ma questo è come una premessa, poiché poi c'è, soprattutto, l'indagine psicologica, lo scavo chirurgico nell'animo dei personaggi, l'individuazione delle loro motivazioni profonde e nascoste. Le due cose stanno in stretto rapporto: l'esperienza interiore e individuale dei personaggi rimanda direttamente a realtà esterne e collettive, alle facce diverse e molteplici del mosaico di cui è composta la società americana. Quella che descrive è una realtà e un'esperienza drammatica, segnata, come si è detto, dalla violenza manifesta e dalla ancor più terribile violenza sotterranea; per cui, più che raccontarci la violenza che sta nelle azioni, la Oates suggerisce magistralmente la violenza che minacciosamente informa parole e gesti dall'apparenza neutrale, ordinaria, "normale", come quelli iniziali di Arnold nel primo racconto di Figli randagi. Sono proprio i momenti che ci sono più familiari che si rivelano carichi di minaccia; e sono gli aspetti più quotidiani che si caricano di terrore. Per questo la violenza presente nella sua opera è ancora più raggelante: perché (soprattutto nei lavori successivi, con qualche concessione in questa raccolta degli esordi) non ha bisogno di essere esplicitata. E lì, sotto le parole del racconto, pronta a esplodere subito dopo che saremo giunti alla frase finale. I figli randagi di questi primi racconti sono ragazzini e adolescenti contrapposti a un mondo di adulti con i quali non è possibile alcuna comunicazione, se non quella che passa attraverso la sopraffazione. Non c'è violenza fisica, ma c'è una violenza psicologica spietata, o un'indifferente incapacità di capire altrettanto distruttiva. Gli adulti, come dice Claudia Valeria Letizia nella sua postfazione, "sono anch'essi disadattati, gente insoddisfatta della propria identità, della realtà circostante, della vita in genere; ma questi hanno dalla loro l'età e, di conseguenza, una chiarezza di idee, un disincanto, o un fatalismo che i più giovani, nella maggioranza dei casi, non conoscono ancora". (L' eccezione è offerta da Charles Benedict, l'adulto del racconto che dà il nome alla raccolta, Figli randagi.) Da questa contrapposizione generazionale emerge un ritratto americano anomalo e inquietante, lontano anni luce dall'immagine che ci veniva offerta dalla stessa cultura "alternativa" di quegli anni. Ma occorre ribadire che l'interesse sociologico, già in questi primi racconti, come nell'opera successiva della Oates, non si impone alla narrazione, che ha invece nel ritratto psicologico, nell'indagine dei moti dell'animo, nello svelamento dei timori, delle debolezze, delle paure dei personaggi, il suo interesse primario e il suo senso profondo (agghiacciante e mirabile, in modo particolare, è la resa dei due livelli presenti nel ritratto di Tessa, la Ragazza sull'orlo dell'oceano, diviso tra le parole scontate deila normalità e le ossessioni e i fantasmi della mente). Quelle figure di adolescenti, con le loro inesperienze abbacinate dall'esperienza, sono creazioni letterarie di una forza pari ali' economicità con cui ci vengono consegnate; e il loro mondo segreto ci giunge come una rivelazione dolorosa e accorata. Ma senza l'ombra di un cedimento sentimentale, senza alcuna consolazione retorica, senza il minimo intento predicatorio. Ci sono soltanto i personaggi con i loro pensieri e la maestria di un narratore defilato che ce li fa balzare davanti agli occhi con la neutralità e la precisione di una macchina da presa. Il senso ultimo, come in un film, è affidato alla scelta delle immagini, al loro montaggio, alla forza significante che da esse emana. Le parole di Joyce Caro! Oates sono lo sguardo su un mondo. SULLANONVIOLENZA Rispostaa Bobbio GiulianoPontara Nel mio articolo dal titolo Il mite e il nonviolento. Su un saggio di Bobbio - pubblicato, assieme ad un intervento di Norberto Bobbio, Il mite e il nonviolento. Risposta a Pontara, nel numero di marzo di "Linea d'ombra" -cominciavo con il mettere brevemente in rilievo tre tesi che sono chiaramente espresse nel saggio di Bobbio Elogio della mitezza, pubblicato come opuscolo accompagnante il numero del dicembre scorso della rivista. Le tre tesi sono queste: 1) La mitezza è una virtù; 2) essa è una virtù che in politica non ha nessuna parte; 3) mitezza= nonviolenza. Chiunque può vedere che da queste tre tesi segue4) che la nonviolenza è fuori dalla politica. Purtroppo, all'inizio del mio articolo mi è sfuggita dalla penna una frase tale che poteva essere interpretata in modo assai sfavorevole nei confronti dell'amico Norberto. Infàtti, dopo aver detto, correttamente, che le tre premesse sono chiaramente .formulate nel suo Elogio della mitezza, e aver altresì scritto che da esse la conclusione segue necessariamente, scrivo, pure correttamente, che nell'articolo di Bobbio questa conclusione non è esplicitamente formu!°vta,e quindi aggiungo: "Bob bio la lascia dedurre al letto(e". Forse Norberto ha interpretato questa mia espressione in modo tale per cui io con essa avrei insinuato il sospetto che egli abbia voluto squalificare, in modo un po' occulto, la teoria e la pratica della nonviolenza. Non nego che, sfortunatamente, questa espressione possa essere interpretata in tal modo. Ma se Norberto l'avesse per caso interpretata in tal senso, questo sarebbe per me molto sconcertante: come poteva essere nelle mie intenzioni insinuare che lui - proprio lui! - nel suo articolo sulla mitezza intendesse occultare la teoria e la pratica della nonviolènza? Comunque, se è questa frase che lo ha amareggiato, gli chiedo mille volte scusa per averla scritta. Iniziavo il mio articolo con il sillogismo sopra indicato non per pedanteria professorale, ma perché esso mi permetteva di indicare subito e con la massima chiarezza al lettore i quattro temi sui quali nel resto del mio articolo intendevo brevemente discutere - e sui quali infatti discuto. Quando lessi, alla fine del dicembre scorso, il bel saggio di Bobbio sulla mitezza mi sentii in parte molto stimolato, ma fui anche stupito e piuttosto turbato. Mi sentii molto stimolato dalle osservazioni iniziali che egli ivi sviluppa sull'etica del dovere e l'etica della virtù, osservazioni sulle quali però mi trovavo soltanto parzialmente d'accordo; ma fui stupito e turbato quando, alla fine del saggio, dopo che Bobbio aveva argomentato che la mitezza è fuori dalla politica, lessi le ultime righe in cui la nonviolenza veniva identificata, senza andare tanto per il sottile, con la mitezza. Ne fui stupito: "Come fa (mi chiesi) l'amico Norberto - il quale conosce a menadito tutta la fenomenologia della nonviolenza e tutte le importanti distinzioni che da almeno mezzo secolo si sono tracciate nell'ambito di essa - ad identificare così alla svelta, e per di più in un articolo in cui ha sostenuto la tesi per cui la mitezza è fuori dalla politica, la nonviolenza con la mitezza?". E ne fui turbato: "Come mai (mi chiesi) Norberto non si è accorto che - in tempi in cui i nonviolenti sono in difficoltà proprio perché è opinione crescente che la nonviolenza sia fuori dalla politica, e vi è quindi bisogno, anche quando soltanto si accenna alla nonviolenza, di chiarezza cristallina - identificando la mitezza (come da lui definita) con la nonviolenza, rendeva alla causa di quest'ultima - proprio lui! - un gran brutto servizio?". Per questo scrissi che l'identificazione di nonviolenza e mitezza era "fuorvian-

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