Linea d'ombra - anno XII - n. 93 - maggio 1994

che non mancano (purtroppo, sarebbe il caso di dire) di carica utopica come la convivenza multietnica e lo sviluppo sostenibile. Ma senza esasperarli, come una certa sinistra catastrofica tende a fare. Piuttosto lasciando emergere quello che in questi obiettivi è capace di suscitare entusiasmi, le idealità e i valori che contengono. È molto probabile che le società chiuse di questa fine secolo siano comunque restie di consensi di fronte a obiettivi simili, ma le minoranze così aggregate rappresenterebbero almeno un buon punto di partenza. Così non è, invece, per quel terzo degli italiani che hanno votato a sinistra. Come dimostra la facilità con la quale nelle loro fila si diffondono spiegazioni della sconfitta come quelle che si è qui descritto e cercato di criticare. Se nonostante tutto questo analisi così grossolane si sono diffuse facilmente nel popolo di sinistra, una ragione c'.è. Tra quelle possibili, l'interpretazione che è mancata una affermazione di rottura e alterità è infatti la più consolatoria, quella destinata a lasciare inalterate culture e forse organigrammi: proprio ciò che invece bisognerebbe mettere radicalmente in discussione. Quelle che circolano sono dunque, per usare un vecchio less.ico, interpretazioni oppo1tuniste, che criticano più o meno ipocritamente la superficie del problema e delle responsabilità. O perlomeno spiegazioni pigre, che non si sforzano di superare l'apparenza e di mettere in discussione conformismi e verità di comodo. Quando invece è ora di andare al fondo della crisi della sinistra. Davvero ora o mai più. Con quali culture la sinistra ha infatti affrontato le elezioni più importanti della storia recente italiana? Sostanzialmente quelle prodotte dalla rottura dell' 89, con le conseguenti identità trasformate o irrigidite che ha prodotto. Ma con l'incapacità di comprendere davvero l'evoluzione della società italiana in questi anni cruciali. Per molti versi questa difficoltà ha ripetuto DOPO LEELEZIONI 5 ed ereditato quello che era stato un deficit disastroso della sinistra negli anni Ottanta, col suo oscillare tra il rifiuto e la compromissione con i tratti culturali, antropologici, politici decisivi di quel decennio. Ma in questa prima metà degli anni Novanta, nelle pieghe di Tangentopoli, davanti ai primi segnali di recessione, nel generale processo di desolidarizzazione che ha accompagnato conflitti e tensioni nuove, la sinistra non è stata capace di riconoscere e giudicare co1Tettamente le pulsioni e gli umori nuovi che nel corpo sociale si sviluppavano. Con alcuni, quelli corporativi e giustizialisti, ha confusamente flirtato, altri li ha ignorati e rimossi. ·Come quelli che nella distrazione e sottovalutazione generale, hanno lentamente, orribilmente ricostituito una base di massa per la destra più estrema, becera, fanatica. Di fronte a questo processo che ha disgregato i simulacri del vecchio potere senza costruirne di nuovi e quindi sostanzialmente riconsegnando potere ai soliti ceti e gruppi, la sinistra ha scioccamente coltivato l'idea della propria superiorità, della propria innocenza, perfino di una propri-a immancabile vittoria. Ben altro stava accadendo in questo paese. Troppo tardi, praticamente solo nel corso della campagna elettorale e alcuni nemmeno allora, ce ne siamo accorti. E allora sono venuti al pettine molti nodi, la sinistra ha pagato tutti i suoi errç,ri e anche qualcosa di più. Non la sua mancanza di radicalità o viceversa di ! moderazione, ma qualcosa di più profondo e difficile da inventare: la mancanza di coraggio. Il coraggio di portare a fondo le trasformazioni necessarie, di liberarsi in fretta e senza ipocrisie delle :tavorre ideologiche, delle indecisioni tattiche, delle idiozie demagogiche. Il coraggio di abbandonare gli interessi di Foto di Antonio Biasiucci/Grazia Neri.

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==