Linea d'ombra - anno XII - n. 93 - maggio 1994

VEDERE,LEGGERE,ASCOLTARE 67 Kaosmos. Il Rituale della porta è l'ultimo spettacolo dell'Odin Teatret. Quest'anno l'Odin compie trent'anni di lavoro continuo: trent'anni di continuità e di esperimenti, di addii e di ritorni, di spettacoli e di Libri,di incontri e di scontri, di vite e di amori quanti ne concedono undicimila giorni e undicimila notti. Trent'anni vissuti nei luoghi più disparati del mondo e nel loro contrario, quella grigia cittadina di Holstebro, Danimarca, dove il gruppo vive la sua frenetica quotidianità e le sue lunghe stagioni di prove. Dei membri fondatori del gruppo ne restano quattro: Eugenio Barba, Torgeir Wethal, Else Marie Laukvik e Iben Nagel Rasmussen, an·ivata un paio d'anni dopo nel 1966. Altri attori come Robe1ta Carreri e Julia Varley si sono aggiunti vent'anni fa. Quindi i più giovani: Tina Nielsen, I sabei Ubeda, Kai Bredholt e soprattutto i due atto1imusicisti, Jan Ferslev e Frans Winther, il cui sound è diventato l'anima insostituibile degli ultimi spettacoli. Scrivevo nel 1974, al tempo in cui ho conosciuto l'Odin: "L'Odin è solo un teatro? No, almeno non secondo le categorie. Un teatro che non ti annoia, che non ti getta in faccia la sua propaganda, che non frequenta i normali circuiti; un teatro che ti assorbe cacciandoti nelle pieghe della tua emotività e che si va a scegliere il suo pubblico fra gli studenti, fra i pastori di Orgosolo, fra i piccoli gruppi teatrali che lavorano oltre i confini periferici; un teatro che ammette di nutrirsi ma nel quale gli attori guadagnano uno stipendio appena decoroso e che forma attori di alto professionismo per poi vederli andar· via, lontano dal teatro, un teatro come questo infligge un duro colpo alla mania delle etichette. Forse addirittura ribalta la tradizionale accezione di un termine". A vent'anni di distanza, provo un doppio piacere: di non aver sbagliato e di poterlo oggi riscrivere (senza il forse). DALMESSICO:CASTELLANOS, PONIATOWSKA,PACHECO MarcoNifantani Tra i percorsi letterari proposti di recente dalle case editrici, di particolar·e interesse è quello suggerito da Giunti con la pubblicazione di tre opere importanti quali Balun-Canan di Rosai-io Castellanos, Fino al giorno del giudizio di Elena Poniatowska e Le battaglie nel deserto di José Emilio Pacheco, tre Libri-chiaveinediti, già classici per l'approccio alla cultura e alla letteratura messicana. Un unico filo comune: il rapporto del!' individuo con la sto1ia,in una traina fitta e quotidiana di eventi mar·ginali, piccole scoperte, così come grandi rivolgimenti sociali, utopieedisillusioni. E una grande felicità artistica come dato ugualmente comune ai tre testi. La letteratura messicana è probabilmente meno conosciuta di altre al lettore italiano anche perché meno di altre è stata toccata dalle dinamiche perverse del boom latino-americano degli anni Sessanta e Settanta. Di fatto dentro il suo orizzonte ritornano costantemente i limiti di un sistema politico e sociale paternalista e corrotto, istrionico e castrante, e il tentativo di guadagnare spazi non solo artistici ma anche morali, contro il conformismo e la retorica imperanti. Da qui un ce1to imbarazzo nell'assimilarla o nel venir assimilata alla fioritura dei prodotti da espo1tazione "made in America Latina", tanto nella variante ontologica e sperimentai verbosa dell'ultimo amato-odiato Carlos Fuentes che in quella della saga fami liar-reducistica alla !sabei Allende, perché se è vero che si tratta di una letteratura godibile, per la felicità della riuscita artistica, in particolare nei testi proposti, è anche vero che ha una sua pretenziosità, che non si lascia facilmente consumar·e o divorar·e dall'emblematico lettore medio né dalla grande orgia della post-modernità più o meno terminale alla quale continua a poITe domande "fo1ti". Chi ha avuto o avrà fra le mani il libro della Castellanos, Balun Canan,JlpaesedeiNove Guardiani, (Giunti Astrea, 1993, pp. 266, Lire 20.000) pubblicato nel 1957, si trova di fronte ad un testo complesso, che affonda le sue radici nella letteratura indigenista degli anni Trenta, ovvero quel complesso di riconoscimento ed esaltazione delle etnie e delle tradizioni degli eredi dei popoli testimoni, nel caso particolar·e del Sud del Messico. Comitan, Chiapas, San Cristobal de las Casas, Ocosingo, Palenque sono quanto di più sacralmente indigeno si possa concepù·equando si parladell' indigenismo messicano che proprio negli anni Trenta riconosceva in questi luoghi il fondamento mitico di una nuova identità. Una identità da contrapporre, dopo l'ondata rivoluzionaria e la reazione "cristera", sorta di rivolta vandeana nelle campagne, al vecchio positivismo irrealistico che Porfirio Diaz e là sua dittatura avevano elevato a vestale della giovane nazione messicana dietro la nuda sostanza di una società retta da rapporti ancora ampiamente feudali. Dal bagno cerimoniale nelle acque della cultura indigena, nasceva alla coscienza moderna una nuova razza: il meticcio. In realtà la scoperta giunge piuttosto in ritardo rispetto alle mutazioni concrete della società, coglie solo alcuni aspetti oleografici, ne ignora altri più concreti, ha un suo lato soprattutto visionario. Ma tant'è. Nell'arte come nella filosofia, impera il binomio indigeno-meticcio, esce un libro piuttosto famoso e dal titolo eloquente, La Razza Cosmica, di José Vasconcelos, i palazzi pubblici accolgono i giganteschi murales di Orozco eRivera, si tenta una curiosa campagna di alfabetizzazione nelle campagne all'insegna della lettura di Omero e della musica classica; tutte manifestazioni diverse ed anche opposte di uno stesso fenomeno, in cui vocazione retorica e metodo antropologico, carica pedagogica e didatticismo si compongono in una mescolanza ambigua. Di fatto quell'epoca, pur con i suoi evidenti limiti, ha lasciato un segno forte, se non altro per aver delineato i termini di una contraddizione aperta e lacerante che oggi torna prepotentemente a galla con i recenti avvenimenti del Chiapas. Ma poiché in Messico, come in altri paesi dalle caratteristiche totalitarie, l' esaltazione e la visibilità vanno di pari passo con la rimozione e l'invisibilità, è altrettanto significativo il fatto che già un decennio più tardi, con il governo di Avila Camacho agli inizi degli anni Quaranta, poi di Miguel Aleman e poi degli altri presidenti, tutti ugualmente riveriti per la loro onnipotenza e odiati per la fatua insipienza e l'alacre corruzione, a nessuno sarebbe più venuto in mente, se non per sbaglio, di ripensare seriamente quanto era stato fino ad allora sulla bocca di tutti, e trarne le debite conseguenze. Iniziava la modernizzazione e la scena perlomeno culturale si spostava sul grande artificioso scenario di Città del Messico. Quando scrive il libro, Rosario Castellanos ha quasi trent'anni ed è cosciente di alcune cose. Primo, che la letteratura indigenista ha speso quel che aveva da spendere sconfinando spesso nella

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