66 VEDERE,LEGGERE,ASCOLTARE - Una scenadi Kaosmos.Fotodi FioraBemporad. ma in quei tocchi pare siano concentrati mille modi di bussare. Il modo è: vorrei entrare, è permesso? Il senso è: sono sempre io, ti ricordi? E sopra, sotto, intorno si legge: non credo che sarà l'ultima, ma quanto durerà? E ti chiedi: di che sta parlando della porta odellaguerra?E non c'è tempo perché ora la porta è un letto di morte per l'uomo-che-non-vuole-morire messo in croce: è un povero Cristo o è proprio il Cristo? E Cristo direbbe: che differenza fa? Ed anche questo è sacrosanto e giusto. Come è divertente questa porta che diventa ora bara ora barchetta, ora vascello dalle vele lacere ora quella tomba calpestata che è la lapide del mondo. Come dagli altri spettacoli dell'Odin, anche da questo ne vengo fuori stordito e smiracolato (raro toscanismo: meravigliarsi di fronte a cose banali come se fossero miracoli), resto ossessionato da una melodia che non riesco a fischiettar~ (lo so che ci perderò delle ore), mi ricorderò a distanza di dettagli come se li avessi visti un minuto prima e dimenticherò intere scene. E mentre vorrei raccontarlo per filo e per segno, mi perdo per strada come nei film di Fellini (che abbuffata vederli di seguito senza sapere dove si è). Come negli altri spettacoli dell'Odin intravedo un ordine ma non un ordine di fila: le azioni si srotolano simultaneamente secondo una messinscena che sembra caotica e invece è cosmica: e proprio non potevano trovarlo un titolo migliore, per definire questa vorticosa drammaturgia (il disordine dell'universo mondo) che mescola le storie, le lingue, i personaggi e che definisce lo spettacolo non agli inizi ma solo alla fine delle lunghe prove. Che la storia, in definitiva, poco importa. Perché intanto di storie ce ne sono almeno due -1' uomo di campagna davanti alla porta della legge e la madre che cerca il suo bambino rapito dalla morte - e poi perché entrambe sono immerse in un contesto - la rappresentazione di una morality play (ah! ah!) nella festa di un paese-che si suppone esistere e che si rivela: a) inventato di sana pianta; b) non vero ma, ancor più che vero, assai verosimile. Mi ricordo un episodio legato a quel telone che nel Potemkin ricopre i marinai prima della fucilazione. Quando proiettarono il film, un vecchio che aveva fatto parte dell'equipaggio della corazzata scrisse ad Eisenstein: "Signor Eisenstein, mi sono visto nel vostro film. Io ero uno dei marinai sotto il telone". Ma Eisenstein quel telone l'aveva inventato di sana pianta: il suo genio si era sostituito alla memoria di quell'uomo, più vero della storia. Ho avuto spesso agli spettacoli dell'Odin, la prova di questa vittoria dell'immaginazione sul fatto. ' Tutto si svolge in un paese della Transilvania, dunque nel cuore dell'Europa: perciò tutto può essere fuorché (ah! ah!) un dramma morale (morality play). C'è una lunga scena in cui Torgeir Wethal, l'uomo-che-non-vuole-morire, rimane fermo, seduto sulla porta coricata: è un'immobilità che cammina, oh! se cammina, fugge piuttosto come una spirale o un tenibile j' accuse. Dice ilcecchino al suo compagno: il guaio dei bambini è che non stanno fermi. Per fortuna è la vignetta di un giornale. Così se la sposa del villaggio si dispera, avanti; se canta a tutti la sua disperazione, ancora avanti; e se la mamma non rivuole indietro suo figlio dopo aver offerto alla morte i suoi occhi per riaverlo, sempre avanti (benché cieca, ha visto giusto: dolore e miseria, orroreeinfelicità). Dopo l'olocausto si dicevajamais, nevermore dopo il Vietnam e nunca mas dopo gli spariti: aspettiamo, da un momento all'altro, la versione slava. Se c'è una cosa che non sifaè ballare sulle tombe e calpestarle: se volete mangiarci e bere, avanti, senza complimenti, come il due novembre alla festa messicana della calavera. Ma ~allare sulle tombe proprio no. Eppure quando arTivano tutti gli ·attori a farlo, senti il gran peso dell'indecisione: non sai se gridare d'orrore o di bellezza. Sono belli questi giovani come lo schiocco delle loro fruste, specie quando seppelliscono i vecchi costumi: ma quella canzone e quello scalpiccio danno i brividi. Ciononostante lo spettacolo mi appare solare, allegro: conoscendo Barba, penso di non aver capito bene i testi che ogni attore dice nella sua lingua madre. Rigiro nelle mani il programma ma, leggo le pagine di Fereno Gombai, "il vecchio studioso ungherese dal viso di corteccia d'albero appoggiato al braccio della settima moglie" dalle cui pagine il rituale della porta è tratto: penso allora alle terribili verità del ramod' oro-deicidi, trasferimenti del male, capri espiatori, l'uccisione dello spirito arboreo ... - insinuate nelle favole. Ecco, è solare come una favola diurna, tutto si svolge alla luce del sole: il villaggio di montagna, con le porte come muri e i muri come porte, le corali di chiesa ma di una religione che non è la nostra (ma qual è la nostra religione?), le parole chiare più oscure della prudenza, il buon vicinato di chiocce commari, i vestiti della festa con i nastri colorati, i cappelli troppo stretti e la borsetta di raso e il demonio annidato nell'orologio a cucù. Pazzo sarebbe l'uomo che volesse costruire una favola e cercasse di convincere la folla! Dunque sono gli attori i motori inarrestabili di questa azione senza protagonisti. "Ma chi è il protagonista di questo spettacolo? Quello che muore alla fine. È questo il teatro? Sì, questo è il teatro: un filo fatto di inganni e astuzie. Il personaggio muore e l'attore torna in vita". Così confabulano due attori attraversando la scena. E non stentiamo a credergli.
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