Linea d'ombra - anno XII - n. 93 - maggio 1994

VEDERE,LEGGERE,ASCOLTARE 65 TRENT'ANNIDIKAOSMOS NicolaSavarese Con l'andar del tempo mi sono fatto una convinzione: credo che il teatro sia un fenomeno legato alla giovinezza, non a quella ideale (chi dichiarerebbe mai di sentirsi vecchio) ma alla giovinezza reale, quella anagrafica: superata una certa età, non si crede più al teatro o meglio si perde l'illusione e si entra nell'età del disincanto. Quando dico "si perde l'illusione" non intendo il distacco dai sogni e dalle belle speranze che l'età giovanile più delle altre alimenta ma intendo la perdita dell'illusione teatrale cioè quel credere alla finzione propria del teatro alla quale, da giovani spettatori, opponevamo poca o nessuna resistenza. Del resto, non cedere alle illusioni vuol dire proprio questo: non credere più al gioco. Non si è più illusi perché non si è più, letteralmente, ingioco ("in ludum", n'est pas?). Non credere più al teatro non vuol dire però perderne la passione. Per esser più chiaro, non credere più al teatro serbandone la passione perme ha voluto dire non credere più agli spettacoli, cioè alla maggior parte delle rappresentazioni che si fanno, ed essere, invece, sempre più affascinato dal teatro d'attore che è invece uno spettacolo raro. Obiezioni. Son d'accordo con la prima: tutto questo che accade con il passare del tempo, potrebbe chiamarsi il progressivo affinamento del gusto. Ammesso che il gusto possa raffinarsi con l'età (penso che diventi semplicemente più soggettivo), potrei essere d'accordo, solo se si desse a gusto lo stesso senso e valore che gli indiani conferiscono al termine rasa: in sanscrito è il sapore, il sapore profondo, quello che- forte o debole che sia -è efficace perché resta in testa più che nel palato e perché, fuori e dentro la metafora, è succo ed essenza: l'essenza provocatrice della poesia e di ogni arte. Del resto, senza andare così lontano, anche da noi il sapore viene da sapere e ne condivide radice e rischi. Son meno d'accordifcon la seconda obiezione: come si fa a non credere agli spettacoli e a credere al teatro d'attore? Intanto si scuserà la ripetizione del verbo credere ma non esistono sinonimi altrettanto convincenti: rivolto agli attori, Stanislavkij era solito dire "ti credo" oppure "non ti credo", senza tema di essere frainteso. Dunque: alla maggior parte degli spettacoli non ci credo perché gli attori sono poco credibili. Esistono invece rari spettacoli in cui il problema non affiora e non mi pongo nemmeno la domanda: sono di fronte ad un teatro d'attore. Dunque ciò che mi avviene, mi è già avvenuto, è che provo insofferenza sia per gli spettacoli in cui gli attori si affannano ad essere "naturali", sia per gli spettacoli nei quali, viceversa, gli attori, per combattere il naturalismo tradizionale e ogni sorta di convenzione, sviliscono la propria natura umana, prima ancora che quella d'attore, comportandosi totalmente "contro-natura". Insomma, non penso di essere l'unico a vedere in teatro attori che recitano sciattamente, come in televisione (infatti molto spesso sono gli stessi): come non penso di esser l'unico ad aver provato imbarazzo, se non vergogna, di fronte ad attori che, per rifiutare il linguaggio della televisione o del teatro commerciaie, cadono, come dire, in un eccesso di espressività e di furore. Si dirà che la colpa è dei registi: può darsi, anzi spesso è proprio così. Ma non voglio discutere qui di mode, di scuole o di epigoni. E poi alla mia età (ah! ah!) mi interessa la miscredenza: non ci credo e basta. Esistono invece teatri d'attore in cui il problema, come dicevo, nemmeno si pone. Così m'intestardisco nella mia convinzione: passata lagiovinezza, nell'età del disincanto (che è poi tutta quella che resta), sono profondamente attirato non dalla storia ma dal modo di raccontarla, non dal gioco ma dalle regole del gioco. Dunque non la finzione teatrale ma le sue convenzioni e gli attori che privilegiano una recitazione codificata, secondo tecniche prestabilite. Non importa se questi codici siano frutto di altre culture o di secoli di esperienze- il Kabuki giapponese, la danza classica occidentale ... - o siano il risultato di un unico pensiero teatrale come il mimo di Decroux: ciò che importa è che i teatri d'arte - tramite l'attore - fanno appello contemporaneamente al mio senso estetico, alla mia intelligenza e al mio divertimento. Insomma: credo alla tecnica, al rigore e alla complessità. Credo ad un attore versatile, capace di modulare il corpo e la voce così da cantare e danzare, non in sequenza ma in modo che ,parlando canti e camminando sembri danzare. Credo agli attori non emozionati ma capaci di suscitare emozioni. Credo agli attori che non descrivono la realtà ma vi alludono suggerendola. E credo ad uno spettacolo dove nessun particolare è lasciato al caso e tutto si fa scoprire lucidamente, a regola d'arte, attraverso il trucco e l'anima, per dirlo con gli antichi, l'unità e la simultaneità, per citare i moderni. E credo infine a queU' attore capace di far dimenticare che la scienza del teatro esiste, secondo quell'interpretazione sorprendente che Ferdinando Taviani ha dato dell'antica massima "impara l'arte e mettila da parte": che non vuol dire, secondo lui, tieni da conto un'arte appresa che prima o poi ti servirà ma piuttosto, guarda un po', una volta appresa la tecnica, mettila in pratica ma non far sì che prevarichi. Per questo sono attirato, rapito dalle grandi tradizioni teatrali che professano proprie regole e che formano attori ad altissimi livelli, tali che se ne può misurare in tutti l'eccellenza. Così mi rifugio nelle grandi tradizioni dell'Asia - nel Kabuki, nel N6, nell'Opera di Pechino, nei teatri danzati dell'India o di Bali: epurate e arricchite da secoli di esperienze, queste grandi tradizioni teatrali si muovono fra virtuosismi e narveté, arditezze e sfumature sottili, sul filo di una realtà iperreale. Perché, dagli e ridagli, il punto cruciale è sempre lo stesso: il teatro non deve ricreare la realtà ma svelarne il doppio. Così, quando in Occidente voglio vedere un teatro d'arte, un teatro d'attore che mi sorprenda e mi diverta, vado a vedere uno spettacolo dell'Odin Teatret. All'incirca uno ogni due anni. Quando l'Odin gioca con le cose lo fa al risparmio: se è prevista una porta, come in questo spettacolo intitolato Kaosmos. Il Rituale della Porta, state tranquilli che la porta ci sarà (sano realismo), che non sarà stata comprata invano (sana economia), che sarà sfruttata in tutti i modi possibili e immaginabili, anche come una porta (insana fantasia). In quanti modi si bussa ad una porta? Se li volete conoscere tutti più uno domandatelo a lei, a Iben Nagel Rasmussen: dei tocchi che fa non ne fa mai due uguali, eppure è sempre lei. Quando bussa alla porta non fa altro: bussa soltanto ad una porta

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