Linea d'ombra - anno XII - n. 93 - maggio 1994

48 MANEASUELIADE nuovi, e avrebbe goduto del rispetto e della "tolleranza" riservata agli intellettuali rumeni "utili". Avrebbe forse perfino ricevuto un calcolato "incoraggiamento" dalle autorità comuniste che utilizzavano le vecchie idee dei loro antichi oppositori fascisti come comoda giustificazione del proprio sistema. Verso la metà degli anni Sessanta l'apparato ideologico del partito di Ceauçescu iniziò infatti uno studio sistematico dell'esperienza della Guardia di Ferro: i comunisti invidiavano il favore popolare riscosso a suo tempo dalla Guardia di Ferro e adottarono i suoi stessi slogan: "rivoluzione nazionale" invece che "internazionale", lo stato totalitario imperniato sul "Conducator" o capo supremo, il discredito della democrazia, l' anti-intellettualismo, la repressione del liberalismo e così via. Il vero nemico del partito nazi-comunista di Ceauçescu non era l'estremismo di destra ma lademocrazia. Le tendenze democratiche e razionaliste del pensiero rumeno (ovvero i principii della rivoluzione democratico-borghese del 1848, lo humour sarcastico del grande scrittore rumeno Ion Luca Caragiale, l'eredità dell'importante critico letterario e pensatore sociale Eugen Lovinescu e così via) diventarono così il bersaglio preferito dei "cacciatori di streghe" rumeni, insieme con il "decadente influsso" dell'Occidente, intorno a cui l'onnipresente Securitate cercò di tirare un cordone sanitario. Ma Eliade non tornò mai in Romania. È probabile che per qualche tempo in Occidente la sua fama di anticomunista lo abbia protetto da sgradevoli domande sui suoi rapporti con il fascismo. Alla fine, però, le domande arrivarono, poste ~on dal nemico comunista ma proprio da quella società democratica che egli aveva sempre guardato con profondo scetticismo. E richiedev:ino risposte definitive, giacché nulla quanto l'evasività stimola nell'opinione pubblica la voglia di scavare a fondo. Non fu piacevole per Eliade confrontarsi con il proprio passato, ma non fu così drammatico come sarebbe stato sotto un regime totalitario. 3. Echi di questo travaglio appaiono nell'ultimo volume dei Diari. Il 6 giugno 1979 Eliade serive: " Ho appreso che Furio Jesi mi ha dedicato un capitolo di calunnie ed insulti nel suo recente libro Cultura di destra. Sapevo già da tempo che Jesi mi considera un antisemita, un fascista, un militante della Guardia di Ferro ecc. Probabilmente mi accusa anche di Buchenwald ... Le sue ingiurie mi lasciano indifferente: non leggerò il libro per non dovergli rispondere." È così stizzito che abbandona il suo freddo distacco di studioso e dichiara calunnioso un libro che non ha letto e manco intende leggere per non essere obbligato a replicare; evoca persino chenwald con un tono sarcastico che è, diciamo così, ri~portuno. Poche settimane dopo, il 4 luglio 1979, reindossa la sua 1 'rlaschera blasée e nel Diario troviamo un'annotazione evasiva. li 1'Barbaneagra mi ha riportato una sua recente conversazione con t Jean Sevrier: Israele ha impartito precise istruzioni che io venga criticato e attaccato in quanto fascista ecc. Jean Servier, dice Barbaneagra, era indignato. Ci credo, ma non c'è nulla da fare". Questa sua stizza - camuffata da ironia e finita in stanca autocommiserazione - è sintomo di vulnerabilità, di senso di colpa o piuttosto un'esibizione di superiore distacco dai clamori del mondo reale? Per chi conosceva Eliade come un affabile profugo di squisita sensibilità ed affettata cortesia, sempre socievole e bendisposto ("l'ultimo uomo sulla terra in cui sospettare pensieri totalitari", disse un suo amico) simili accuse erano inconcepibili. Ma non è facile trionfare su un'accusa di questo genere se non si è in grado di confutarla. Quell'infame esperimento umano chiamato nazismo - con tutta la sua propaganda isterica, l'arrogante brutalità, l'aggressività devastante, i campi di concentramento - non può essere visto separatamente dal contesto in cui nacque: in un periodo di crisi economica, politica, morale e intellettuale esso fece balenare una soluzione semplicistica, violenta, "radicale". Nazismo non significò immediatamente forni crematori; esso raggiunse il suo sinistro culmine lentamente, furtivamente, crudelmente. (Al polo opposto, o almeno così parve, c'era il comunismo, che derivava il suo totalitarismo dall'umanesimo di un'utopia egualitaria e razionalista). Eppure cifu chi intuì fin dall'inizio l'orrore di una visione totalitaria e non bisogna dimenticarsene nel cercare di chiarire le colpe, collettive o individuali, felici o infelici, di chi fu "compagno di viaggio" dei missionari dell'orrore: ci furono uomini e donne che ebbero reale chiarezza di visione. Potremmo citare ad esempio un'opinione pre-olocausto non di un filosofo o di uno scrittore, ma di una giornalista: l'americana Dorothy Thompson. Espulsa dalla Germania di Hitler per i suoi scritti, considerava il nazismo: " ...il ripudio di tutta la storia dell'uomo occidentale ... una rottura netta con la Ragione, l'Umanesimo e l'etica cristiana che sono alla base del liberalismo e della democrazia ...Nella sadica distruzione di tutti i modelli precedenti, nella sfrenata esaltazione della 'volontà di potenza', nell'orientale accettazione della morte come fecondatrice della vita e nella ricerca della morte come vero eroismo, esso è profondamente nichilistico. Ponendo la volontà al di sopra della ragione, l'idea al di sopra della realtà, facendo continuo appello a totem e tabù, erigendo feticci tribali, soggiogando e distruggendo il buon senso nato 'dall'esperienza umana il nazismo, ne sono più che certa, è nemico di tutto ciò che è solare, ragionevole, pragmatico, assennato, libero, vitale, armonioso ed erede della tradizione". Sapere come Eliade, all'epoca del suo legame con il movimento fascista rumeno, avrebbe potuto replicare a questa visione ed agli specifici riferimenti all'etica cristiana, alla concezione orientale della morte eroica, alla "Volontà di Potenza" ed ai rituali tribali di cieca sottomissione al capo - elementi tutti di fondamentale importanza per il movimento Legionario - potrebbe spiegarci perché tanti eminenti intellettuali rumeni della sua generazione abbiano scelto questa sciagurata affiliazione. Potrebbe anche spiegare come un rigoroso e convinto intellettuale conservatore possa trasformarsi in un fanatico di destra; e un intellettuale umanista e progressista in uno stolido militante comunista. Fu colpa della confusione di una società in crisi, che non seppe consolidare la sua democrazia e offrire una "fede" coerente a chi era esposto alla tentazione di questi radicalismi? Eliade evitò sempre una chiara analisi della sua militanza. Su questo argomento delicato e potenzialmente sgradevole egli preferì mantenersi ambiguo ed evasivo. Persino su argomenti meno controversi, come certe questioni accademiche sulla sua concezione della storia delle religioni, sfuggiva il confronto diretto e il dibattito aperto e concreto. "Dagli articoli che Ioan Culianu mi ha dedicato, ho capito che negli ultimi tempi si è sviluppata una certa critica 'metodologica' contro la mia concezione della storia delle religioni" (15 settembre 1985). Eliade dà l'impressione di essere venuto a conoscenza solo per via indÌretta delle obiezioni mosse al suo metodo. "Non ho mai replicato a questo genere di critica - continua - ma forse avrei dovuto farlo". Si ripromette di controbattere per chiarire "confusioni ed errori", ma sa bene che non lo farà perché poi dice: "Temo che non ne avrò mai il tempo". Quando viene chiamato nazista antisemita o deve sopportare~ il peso schiacciante di accuse che infamano la storia della sua vita, la tendenza a ritrarsi è ancora più evidente. È vero che il silenzio ha una sua dignità e che il riserbo rivela delicatezza e non solo

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