VEDERE,LEGGERE,ASCOLTARE 37 StevenSpielbergsulsetdi Schind/er's Lisi con l'attoreLiamNeeson. Fotodi DavidJames. concede spazio all'amnesia, che si può manifestare in varie forme, dall'ignoranza più semplice al divenire facile preda di qualsivoglia "revisionismo" storiografico di decente o poco nobile fattura. Spielberg, insomma, avrebbe fatto un film sull'Olocausto tenendo presente che la stragrande maggioranza dei probabili spettatori del film poco sapevano di ciò che il nazismo aveva fatto agli ebrei e quel poco, sovente, in modo confuso, ambiguo, distorto. Proprio per questo, ribattono i critici di Spielberg, il regista avrebbe dovuto sentirsi ancor più vincolato a una responsabilità educativa o formativa particolare, puntando a raccontare, in tutta la sua brutalità, la verità dell'Olocausto. Questi criticitra cui ha primeggiato Claude Lanzmann, il regista di Shoah - non si rendono conto, in realtà, di rimproverare a Spielberg di non aver fatto il film che tutti vorrebbero e avrebbero voluto da sempre; e cioè un film "storicamente" rigoroso, emotivamente denso e inquietante, pieno di pathos ma non di rassegnazione, capace di spiegare cosa fu e perché fu possibile quell'esperienza eccezionale e indicibile, capace di indurre a contrastare ogni nuova avvisaglia ed espressione di quegli atteggiamenti passati; ma anche un film godibile, di successo, che riuscisse ad attrarre milioni di spettatori e specialmente i giovani. A parte il fatto, che sembra ovvio ma che evidentemente non lo è, che non si può pretendere da una sola opera di riassumere ed esaurire una complessa interpretazione storica (e tutto ciò che di 'emotivo e razionale essa comporta), ciò che più sconcerta è il riaffiorare di una tendenza che nega per principio a ciò che ha successo di massa una funzione pedagogica e una dimensione · insieme conoscitiva e morale. La prima constatazione da fare è invece questa: il film di Spielberg (poco importa se perché è lui il regista o perché il film è bello e accattivante) l'hanno visto e continuano a vederlo tantissimi spettatori, anche giovanissimi, che mai si sono sognati o si sognerebbero di guardare in televisione qualche programma sull'Olocausto o di leggere qualche libro di storia e di memoria sugli ebrei. La seconda constatazione riguarda la sostanza di ciò che Spielberg fa vedere ai suoi spettatori: e che non è certo una "happy end story" più di quanto non lo sia stato davvero, per gli ebrei, la nascita dello stato di Israele o, per i sopravvissuti, la possibilità di continuare a vivere e di raccontare l'indicibile tragedia dello sterminio subito. Anche a me, devo confessarlo, ha dato un po' fastidio la parte finale del film, il discorso di commiato di Oskar Schindler dai "suoi" operai ebrei (anche se forse fu davvero così, retorico e teatrale ma non per questo bugiardo e irreale), così come la figura dell'ufficiale sovietico che incarna la consapevolezza futura dei nuovi disordini mondiali. Ma sono anche convinto che nel!' opyra di Spielberg ci siano non pochi elementi per avvicinarsi alla comprensione di quello che è sempre stato uno dei punti più difficili da spiegare: e cioè l'incredulità degli ebrei al destino cui andavano incontro, il loro aggrapparsi a ogni più piccolo segnale per non cedere alla disperazione, i motivi di una mancata ribellione generalizzata, la graduale accettazione di una normalità terribile e sempre più simile a una natura devastante e omicida cui non ci si può opporre. Non credo che Spielberg abbia voluto individuare in quella di Schindler una figura emblematica, ma abbia scelto la sua vicenda perché gli offriva una possibilità molto più articolata di muoversi in una realtà complessa, in uno sfondo di ombre e chiaroscuri che costituiva il contesto di una lotta tra il Bene e il Male (e in cui il Bene è rappresentato da un personaggio non "buono", invischiato nel Male e a contatto continuo con esso). Questa storia regge all'intreccio, al ritmo, alla narrazione,
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