Linea d'ombra - anno XII - n. 93 - maggio 1994

~ITALIA VAADESTRA/Il MOVIMENTO DEGLISTUDENTI INFRANCIA .. =~/ /~/~ ~UD AFRICA:BOSMAN,HEAD,MPHAHLELE, P > SEPAMLA ~~~~~~ ~RCEA ELIADE Il FASCISMO/ ANDREACAFFIELA NONVIOLENZA ~

Trui Flu~ Art Mut1 ■ 0/ (·.,..,,f!•P•R•RJ A,1 MEDIALISMO Questo volume raccoglie una selezione di testi critici di Gabriele Perretta, pubblicati a partire dal I989 fino al I993. L'autore ha seguito il percorso di 46 artisti, mettendo in evidenza le differenti metodologie di lavoro, evidenziandone i riferimenti a volte pittorici, a volte analitici o al Linguaggioed al L'ARCA DI NOÈ comportamento delle imprese. Ogni artista viene presentato con un breve testo critico, foto a colori ed un esauriente apparato bio-bibliografico. Tutti i testi sono pubblicati anche in lingua inglese. Medialismo pp. 300 L. 40.000 Ampio e curioso panorama di alcuni dei maggiori artisti internazionali ed italiani contemporanei alle prese con la rappresentaz i on e degli animali. L'Arca di Noè vuo1e testimoniare l'omaggio dell'arte al mondo animale, alla sua rappresentazione odierna quasi sempre legata ai miti ed alle rappresentazioni ancestrali. Nel volume, ognuno dei 67 artisti viene presentato con un breve testo critico, foto a colori ed u·n esauriente apparato bio-bibliografico. L'Arca di Noè pp. 150 L. 30.000 PRIMA LINEA La Nuova Arte Italiana Utilissima ed attualissima indagine sulle nuove tendenze dell'arte contemporanea italiana ed i suoi rapporti con le realta locali in una prospettiva internazionale. I due curatori, Francesco Bonami e Giacinto Di Pietrantonio, hanno selezionato 11 artisti ciascuno con l'intento di mostrare la variegata situazione italiana. Un vero appuntamento con la nuova arte italiana. Il volume presenta i testi introduttivi dei due curatori e per ciascun artista un breve testo critico, foto a colori ed un esauriente apparato biobibliografico. Tutti i testi sono anche in lingua inglese. Prima Linea Audienéé"0.01 AUDIENCE 0.01 Libro catalogo dell'omonima mostra al Trevi Flash Art Museum, Audience 0,01 e un percorso internazionale di video, curato da Helena Kontova. La rassegna si presenta come un panorama tra i piu completi, per la partecipazione di 15 artisti video tra i piu interessanti ed innovativi nel mondo che usando il mezzo tecnologico mostrano l'effetto creato dai nuovi media sulla nostra psiche. Gli artisti presentati in Audience 0.01 sono: egan, Fleury, Kilimnik, Krystufek, Lambert, Landers, Morimura, Nakahara, Pippin, Pipilotti La Nuova Arte Italiana pp. 160 L. 40.000 7-,- Aitken, Benning, DonRist, Roth-Stauffenberg, Toderi, Jane and Louise Wtlson. Esauriente libro/catalogo in doppia lingua, italiano e inglese, con testi di Helena Kontova, Roberto Grandi, Laurence A. Rickels, Marita Sturken, liiaLewis e una parte ~ir:ifla:,.: a ciascun artista. / ~- , ·• 1;.-.-. . .., ... '· j .,. -.~J.i;·.~· ..... - \ ~ • ~- . ! .J, •• ~ .• •/ /j . : \ -· ..., ·.;...~-"11..· .... ~ . : Audience 0.01 r. ······ pp. 64 L. 15.000 -, . ./ ~ ,,. .. -~·" C.P. 36 - 06032 :lANCARLo POLITI orgo Trevi (PG) DISTRfBUTJo - TeJ. (0742) 381.691 N -Fax f \0742) 782 · 69

RICONOSCENDO LEORMDEICHCI l HAPRECEDUTO SI VAAVANTFI.NCHSÉISCORIGNE- NANAZINOUI NA 1 AL o BIBLIOTECA h1 ~ GINOBIANCO~ ~ ~ ' * ,

COMEABBONARSI A Hanno pubblicatosu ''Linead'ombra": Acheng, Shamuel Y. Agnon, Altari, Jean Améry, Giinther Anders, Hanna Arendt, W.H. Auden, Ingeborg Bachmann, PeterBichsel,RomanoBilenchi,HeinrichBoli,Massimo Bontempelli,KazimierzBrandys,Luis Bufiuel, AlbertCamus,AldoCapitini,GiorgioCaproni,Paul Celan,Louis-FerdinandCéline,StigDagerman,GiacomoDebenedetti,AntonioDelfini,ThomasS. Eliot, William Faulkner,Rafael Ferl.osio,Leslie Fiedler, FrancisScott Fitzgèrald,EdwardM. Forster,Carlo Emilio Gadda,GiinterGrass,GrahamGreen,Jerzy Grotowski,JolloGuimaraesRosa, ChristophHein, Bohumil Hrabal, TadeuszKantor,KarlKraus,Stanley Kubrick,CarloLevi, MalcolmLowry,MarioLuzi, · AntonioMachado,HerbertMarcuse,HermanMelville,Lorenzo Milani,ElsaMorante,GiacomoNoventa,GeorgeOrwell,CynthiaOzick, FlanneryO'Connor,JoséEmilioPacheco,AldoPalazzeschi,Raniero Panzieri,PierPaolo Pasolini, BorisPastemak,GeorgesPerec,Fernando Pessoa, AndrejPlatonov,Vasco Pratoi.ini,RaymondQueneau, FabriziaRamondino,RobertoRossellini,HenryRoth,SalmanRushdie,JuailRulfo,LeonardoSciascia,NathalieSarraute,AlanSillitoe, IgnazioSilone,ClaudeSimonIsaac B. Singer,GertrudeStein,George Steiner,WallaceStevens, JonathanSwift, Lev N. Tolstoj,Tzvetan Todorov,GeorgTrakl,AmosTutuola,MarioVargasLlosa,Manuel VazquezMontalban,PaoloVolponi,HugovonHofmarmsthal,Kurt Vonnegut,SimoneWeil, OuistaWolf, VirginiaWoolf,WilliamB. Yeats,AvrahamB. Yehoshua,AndreaZanzotto. Per sottoscrivere l'abbonamento utilizzate • ·----------------------------------- SÌ sottoscrivo unabbonamento annuale(11nùmeri)aLinead'ombraperunimportot taledi L. 85.000. NOME_______________ COGNOME_______________ _ INDIRIZZO --------------------------------- CITTÀ____________________ CAP ____________ _ PROFESSIONE ETÀ ____________ _ Segnalounamicointeressatoaricevereunacopiaomaggio diLinead'ombra(incasodirispostaaffermativa prolungherete di3mesilmioabbonamento) NOME ______________ _ COGNOME ______________ _ INDIRIZZO ______________ _ ____________ (Ap __ _ CITTÀ______________ _ Indicolamodalitàdipagamento(senzaggiuntadispesepostali) O Assegno(bancarioopostalen.--'-------- banca___________ inbustachiusa) □ Versamento sulc/cpostalen.54140207intestatoaLinead'ombra □ Viautoriuoadaddebitarmi lacifradiL.85.000sucartadicredito □ CartaSì O Visa □ MastercardO Eurocard I I I I I I I I I I I I I I I I I I I I I I ~ ~ POTETEMANDAREANCHEUN FAXALN. 02-6691299 FIRMA-------------- I I I I I I I L---------------------------------------J

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Post. Gruppo lll/70%-Numero 93- Lire 9.000 LINEA D'OMBRA anno XII maggio 1994 numero 93 4 6 7 10 13 Marino Sinibaldi Goffredo Fofi Marcello Ben/ante Fabio Gambaro Saverio Esposito Dopo le elezioni Peggio della sconfitta E adesso? E noi? Il caso Palermo, tra Orlando e Berlusconi La battaglia di marzo degli studenti francesi Sud Africa: rinascita di una nazione CONFRON=T..;;;...I _____________ ___. 34 36 65 67 70 71 Pia Pera Marcello Flores Nicola Savarese Marco Nifantani Paolo Bertinetti Giuliano Pontara Due libri di Gustaw Herling Sul film di Steven Spielberg Trent'anni di Kaosmos. Sull'Odin Teatret Dal Messico: Castellanos, Poniatowska, Pacheco I racconti di Joyce Carol Oates Una lettera POESIEERACCONTIDALSUDAFRICA 14 16 19 25 27 Armando Pajalich Es'kia Mphahltle Herman Ch. Bosman D. Brutus, S. Sepamla, E. Patel, St. Gray Bessie Head STORIE 30 61 63 Vasilij Grossman Hanif Kureishi Francesco Ciafaloni INCONTRI 53 57 39 45 73 Bertrand Visage Nicholas Shakespeare SAGGI Lamberto Borghi Norman Manea SCIENZA Mario Tozzi Piccola introduzione a una storia complessa La valigia Il rooinek La tragedia e il blues. Poesie L'amore per la terra a cura di Franca Cavagnoli La strada Donne scatenate, uomini scatenati Fortezze Un francese al Sud Incontro con Fabio Gambaro Il viaggiatore incantato Incontro con Silvia Albertazzi Società e non violenza nel pensiero di Andrea Caffi Mircea Eliade, il fascismo, la Romania Mappe. Il "papiro delle miniere" La copertina di questo numero è di Elfo. Abbonamento annuale: ITALIA L. 85.000, ESTERO L. 100.000 a mezzo assegno bancario o c/c postale n. 54140207 intestato a Linea d'ombra o tramite carta di credito SI. I manoscritti non vengono restituiti. Si pubblicano poesie solo su richiesta. Dei testi di cui non siamo in grado di rintracciare gli aventi diritto, ci dichiariamo pronti a ottemperare agli obblighi relativi.

UNA SINISTRA È MORTA, VIVALASINISTRA PEGGIODELLASCONFITTA MarinoSinibaldi Per la sinistra ripartire da una sconfitta non rappresenta certo una novità. Lo sarebbe semmai muovere da lì e arrivare da qualche parte. Ma le reazioni venute alla luce dopo la disfatta· elettorale di marzo qon lasciano davvero speranze e anzi ripropongono testardamente immutati i vizi, gli errori, le confusioni che l'hanno determinata. Basta pensare alle due interpretazioni contrastanti e prevalenti per cui la sconfitta deriva dalla mancata conquista del centro oppure dalla moderazione del programma e dell' immagine della sinistra. Interpretazioni speculari ma non equivalenti. La prima corrisponde infatti a un'ovvietà matematica, anche se contiene più o meno nascosta la consueta tendenza a reagire alle sconfitte concedendo troppo ai vincitori, ossia, nel nostro caso, a sbiadire ancora di più quelli che dovrebbero essere i valori della sinistra. La seconda invece, per come viene correntemente formulata ("La sinistra non ha coltivato abbastanza antagonismo, radicalità e alterità") è quasi completamente priva di senso. Intanto perché il meccanismo elettorale rende pressoché automaticamente alternativi i due schieramenti in campo. In secondo luogo perché su una serie di questioni decisive, nonostante incertezze e timidezze e persino al di là della lettera dei programmi, i profili della destra e della sinistra erano visibilmente irriducibili. E infine perché antagonismo e alterità bisogna eventualmente praticarli e non proclamarli. Per esempio anche scegliendo candidature davvero innovative, e non provenienti dal solito ceto politico-giornalistico che non può ormai attirare nessun consenso e che poi a posteriori produce anche interpretazioni così insufficienti a spiegare la sconfitta. Come quella, complementare alla precedente, che denuncia nel programma e nell'immagine della sinistra una scarsa esibizione di novità e discontinuità. Quasi che un voto che manda al governo Ombretta Fumagalli e Publio Fiori possa rappresentare un clamoroso gesto di rottura e manifesti un secco rifiuto della continuità. In realtà in ogni transizione e persino in ogni rivoluzione, passata la fulminea stagione della rottura più o meno radicale col passato (che ha coinciso in Italia con l'elezione dei sindaci progressisti), continuità e discontinuità si intrecciano, tutto sta a scegliere quali continuità salvare e quali discontinuità perseguire.Sarebbe stato importante affermare con più chiarezza come si potessero conciliare la continuità democratica con la discontinuità etica, ma sostenere che nel!' immagine della sinistra fosse troppo debole la componente di rottura col passato, significa non riconoscere nulla dei tratti di chi ha vinto le elezioni. E di come la sinistra venisse percepita dai gruppi, i ceti, gli interessi collettivi e individuali che non l'hanno votata. Con simile incongruità è affiorata nel ripensamento postelettorale la questione dei Sogni della Sinistra. La superiorità delle destre si sarebbe manifestata nella loro capacità di offrire la visione di un futuro seducente; l'inferiorità della sinistra nella sua incapacità di rispondere allo stesso livello, con ia stessà capacità di attrarre entusiasmi e animare energie. Cosa rispondere a queste osservazioni? Intanto che per la sinistra è obiettivamente difficile sognare e proporre sogni, in questa fine secolo. In primo luogo per una ragione storico-genetica: praticamente per tutta la sua vita, la sinistra ha agitato un sogno che si è rivelato un incubo (lettura obbligatoria per questa sinistra lamentosa e sognante: Gustaw Herling, Un mondo a parte, da poco ripubblicato da Feltrinelli). Qualche imbarazzo a proporre sogni più o meno utopici è perciò comprensibile e perfino salutare. Ma poi è curioso che la critica appuntata su questa deficienza onirica provenga proprio da chi mostra di avere a cuore l'identità (magari antagonista e alternativa ...) della sinistra. Se per sogno si intende lo slogan mediatico del Milione di Posti di Lavoro, è ovvio che la sinistra non può contrapporre nulla di simile - per approssimazione, ciarlataneria, indecenza - senza smettere, molto semplicemente, di essere sinistra. È incredibile che chi si oppone per esempio a un'eccessiva moderazione del programma, con la giusta motivazione che una vittoria così ottenuta sarebbe inutile, non ritenga inutile e controproducente ricorrere a linguaggi e strategie simili. Chissà mai perché inseguire _il programma del centro è disastroso ma inseguire il linguaggio della destra no. Una spiegazione c'è, naturalmente; ed è che la demagogia è una delle tentazioni eternamente presenti nella cultura della sinistra - insieme ali' ossessione della conquista della maggioranza pervia moderata. Tentazioni speculari che oggi rischiano di spartirsi le spoglie del popolo di sinistra. Proprio dal punto di vista della sua identità, invece, la sinistra oggi può esistere solo se coniuga Principio Speranza e Principio Responsabilità. Non si tratta dunque di essere meno seducenti, di ingrigirsi eccedendo in realismo e senso della misura, ma di porre con coraggio questioni, come quella ambientale, che scarso spazio hanno avuto in campagna elettorale, forse perché poco compatibili con sogni e deliri vari. E di indicare obiettivi

che non mancano (purtroppo, sarebbe il caso di dire) di carica utopica come la convivenza multietnica e lo sviluppo sostenibile. Ma senza esasperarli, come una certa sinistra catastrofica tende a fare. Piuttosto lasciando emergere quello che in questi obiettivi è capace di suscitare entusiasmi, le idealità e i valori che contengono. È molto probabile che le società chiuse di questa fine secolo siano comunque restie di consensi di fronte a obiettivi simili, ma le minoranze così aggregate rappresenterebbero almeno un buon punto di partenza. Così non è, invece, per quel terzo degli italiani che hanno votato a sinistra. Come dimostra la facilità con la quale nelle loro fila si diffondono spiegazioni della sconfitta come quelle che si è qui descritto e cercato di criticare. Se nonostante tutto questo analisi così grossolane si sono diffuse facilmente nel popolo di sinistra, una ragione c'.è. Tra quelle possibili, l'interpretazione che è mancata una affermazione di rottura e alterità è infatti la più consolatoria, quella destinata a lasciare inalterate culture e forse organigrammi: proprio ciò che invece bisognerebbe mettere radicalmente in discussione. Quelle che circolano sono dunque, per usare un vecchio less.ico, interpretazioni oppo1tuniste, che criticano più o meno ipocritamente la superficie del problema e delle responsabilità. O perlomeno spiegazioni pigre, che non si sforzano di superare l'apparenza e di mettere in discussione conformismi e verità di comodo. Quando invece è ora di andare al fondo della crisi della sinistra. Davvero ora o mai più. Con quali culture la sinistra ha infatti affrontato le elezioni più importanti della storia recente italiana? Sostanzialmente quelle prodotte dalla rottura dell' 89, con le conseguenti identità trasformate o irrigidite che ha prodotto. Ma con l'incapacità di comprendere davvero l'evoluzione della società italiana in questi anni cruciali. Per molti versi questa difficoltà ha ripetuto DOPO LEELEZIONI 5 ed ereditato quello che era stato un deficit disastroso della sinistra negli anni Ottanta, col suo oscillare tra il rifiuto e la compromissione con i tratti culturali, antropologici, politici decisivi di quel decennio. Ma in questa prima metà degli anni Novanta, nelle pieghe di Tangentopoli, davanti ai primi segnali di recessione, nel generale processo di desolidarizzazione che ha accompagnato conflitti e tensioni nuove, la sinistra non è stata capace di riconoscere e giudicare co1Tettamente le pulsioni e gli umori nuovi che nel corpo sociale si sviluppavano. Con alcuni, quelli corporativi e giustizialisti, ha confusamente flirtato, altri li ha ignorati e rimossi. ·Come quelli che nella distrazione e sottovalutazione generale, hanno lentamente, orribilmente ricostituito una base di massa per la destra più estrema, becera, fanatica. Di fronte a questo processo che ha disgregato i simulacri del vecchio potere senza costruirne di nuovi e quindi sostanzialmente riconsegnando potere ai soliti ceti e gruppi, la sinistra ha scioccamente coltivato l'idea della propria superiorità, della propria innocenza, perfino di una propri-a immancabile vittoria. Ben altro stava accadendo in questo paese. Troppo tardi, praticamente solo nel corso della campagna elettorale e alcuni nemmeno allora, ce ne siamo accorti. E allora sono venuti al pettine molti nodi, la sinistra ha pagato tutti i suoi errç,ri e anche qualcosa di più. Non la sua mancanza di radicalità o viceversa di ! moderazione, ma qualcosa di più profondo e difficile da inventare: la mancanza di coraggio. Il coraggio di portare a fondo le trasformazioni necessarie, di liberarsi in fretta e senza ipocrisie delle :tavorre ideologiche, delle indecisioni tattiche, delle idiozie demagogiche. Il coraggio di abbandonare gli interessi di Foto di Antonio Biasiucci/Grazia Neri.

6 DOPO LEELEZIONI bottega, di fazione, dei piccoli gruppi-e le camarille che sembrano oggi tenere in scacco la forza della sinistra. La fatica che c'è voluta per costruire l'ovvia aggregazione dei progressisti è stata il segno più desolante di questa situazione. E lo spettacolo pagliaccesco che si sta mettendo in scena mentre scrivo intorno alla vicenda del gruppo parlamentare unico mostra definitivamente come i primi nemici della sinistra siano ormai i suoi dirigenti. Gente capace di disperdere quel poco di fiducia che sulla proposta progressista si è concentrata, di irridere l'impegno generoso di chi l'ha sostenuta, persino di costruire sul niente il proprio potere. Proprio sul niente, alla lettera: come insegna la vicenda dei gruppi parlamentari che nasceranno da idee, marchi, sigle "di sinistra" che gli elettori hanno bocciato. Qutllo che sta accadendo ora, nel momento decisivo in cui la sconfitta andrebbe meditata e usata, dimostra insomma che la storia degli errori della sinistra non finisce qui. Di fronte a una maggioranza vecchio-nuova che ha subito svelato la brutalità delle sue intenzioni, sarebbe il momento di affermare la propria capacità di opposizione. Ma benché non abbia mai governato, la sinistra italiana non sa fare opposizione. Non l'ha imparato coltivando illusioni consociative, naturalmente. Ma neppure nascondendosi per decenni, e i più tenaci e stupidi ancora ora, dietro la ferrea sicurezza delle proprie ideologie, quelle che si sentono confermate dallo 0,5% in più e si leccano i baffi pensando alle mobilitazioni di piazza "contro la destra". Nulla di tutto questo accadrà: la sconfitta tociale della sinistra è diventata anche sconfitta politica e tornerà a ripercuotersi con ancora maggiore gravità nelle piazze, nei posti di lavoro, nef mondo dell'informazione, nei luoghi dei nuovi conflitti e dovunque si è tentato di sperimentare forme di aggregazione, di mobilitazione e di soluzione dei problemi collettivi. Forse disperazione e disgregazione provocheranno sussulti, ribellioni, scontri, ma sarà l'ultimo pegno che si pagherà alla sconfitta del vecchio. Eppure se c'è una speranza, solo da lì, dalla dimensione minima e diffusa di questa sinistra orizzontale, può venire e solo per essa vale la pena di lavorare. Per creare lì l'opposizione intransigente ma non ottusa ai valori che il paese dei Berlusconi nei prossimi anni coltiverà. Ma ancora prima per reimparare a conoscere questo paese e la sua gente, per riuscire a combatterla, a comunicarci, a convincerla. Lontano da gruppi dirigenti grotteschi e incapaci, fuori dalle culture attuali della sinistra, contro persone, scelte, parole, idee che sono peggio della sconfitta. Foto di Umberto Battaglia/Daylight/Grazia Neri. EADESSO?ENOI? GoffredoFofi Povere cassandre periferiche, inascoltate e detestate, eccoci oggi a soffrire di aver avuto ragione nell'indicare mali e complicità - nel campo non secondario di cui ci siamo sempre occupati, quello di una cultura intesa come sistema di valori, e di modelli antropologici, non come degustazione e vom.itazione di prodotti di consumo per ceti più alfabetizzati di altri ma non meno insulsi o non meno corrotti di altri. Abbiamo avuto ragione anche nell'indicare nuovi quadri di riferimento, antichi principi da riassorbire e mettere a frutto, insiem.i di comportamento altri da quelli dom.inanti (che erano gli stessi infine per la destra e per la sinistra, spesso sponsorizzati e dissodati per primi dalla cultura della sinistra)? Di questo non possiamo aver prove se non "a contrario", nella scarsa presa che nella sinistra dominante queste nostre ossessioni hanno avuto. Segno che avevamo ragione? Ci consola forse il fatto che, mentre la sinistra "maggiore" ha perso e lo sa, noi non abbiamo perso semplicemente perché non gareggiavamo per il potere, perché il compito che ci siamo scelti, da sempre, è ben altro che quello del potere? A rigor di logica, hanno perso i politici e i loro fedeli e non noi che siamo, semplicemente, dei non-vincenti. Questo non ci consola, ma rimane il fatto che al nostro ruolo minoritario siamo abituati e non abbiamo mai ambito ad averne uno superiore. Noi crediamo, insomma, nella necessità di m.inoranze attive che realizzino nel loro piccolo progetti anche molto ambiziosi, nei quali il rapporto tra teoria e pratica sia il più stretto possibile, andando in questo contro la logica tutta italiana (e di sinistra come di destra) del dire a e fare b. Vediamo nelle elezioni di marzo la parola fine di tutta una storia. Il "comunismo italiano" (versione addomesticata dalla spartizione del mondo indue siglata da Ursse Usa cinquant'anni fa)è morto alle ultime elezioni definitivamente; la sua "egemonia" si è spompata via via in una nuvola di chiacchiere e compromessi. Chi scrive ha avuto - e non è certo il solo - davanti a sé per tutta la vita adulta come spettro e nem.ico il Grande Pai1ito, rispetto al quale ogni sua azione, ogni suo progetto, ogni suo scritto era costretto in qualche modo a definirsi- "ricuperato" o osteggiato a seconda dei casi, ma pur sempre condizionato da quel mastodonte burocratico e insulso, massiccia costruzione di false coscienze spesso solamente corporative. Che quel colosso sia crollato ci lascia certo più liberi, e questo va affermato con una qual gioia pur nel disastro di questi giorni, che ci è tuttavia comune. Questo ci dà anche responsabilità molto maggiori che in passato; questo obbliga a molto le minoranze attive che non hanno vergogna a sentirsi tali e che credono nel radicamento, nella possibilità del contagio e nel "ben fare", ma anche nel bisogno di mettersi insieme e di ricostituire gruppi vasti, coordinati tra loro, sulla base di idee e progetti latamente (ma non troppo) comuni, quindi anche a partire da una conoscenza, da una teoria, da un sistema di valori, da un progetto e infine da una utopia comuni. Ci si può aspettare ben poco da rifondatori dell'ultimo o del penultimo momento che ieri hanno affondato la sinistra con la loro

ipocrisia e con il loro opportunismo. Se qualcosa in questo paese, a sinistra, può cambiare nella direzione di una adeguatezza di piani a una situazione radicalmente nuova (al 2000) non si può certo pensare che possa venire da quelle zone. Sta dunque ai pochi gruppi consistenti e concreti che ai margini della sinistra, autonomi e presenti dentro la società e non dentro il palazzo, sono cresciuti nello scorso quindicennio delle ultime degenerazioni, procedere ad analisi nuove, a teorie consistenti e non parolaie (ah, le tonnellate di carta sciupate dalla sinistra socio-filosofica per costruire castelli di sciocchezze lungo questo cinquantennio!) ma sta a loro anche far chiarezza sulle tante minoranze fasulle che la piccola borghesia alfabetizzata del benessere, la grande maggioranza scomposta che ha determinato il trionfo della destra e il fiasco della sinistra, così specularmente unica, produce e produrrà di continuo nella frenesia di un esploso narcisismo sociale; sta a loro il compito delicato e fondamentale di collegare, confrontare, intrecciare, proporre; di spingere la politica su binari di funzionalità collettivamente utili, mai totalizzanti e mai "autonomi". Non basterà difendere spazi e principi, occorrerà crescere senza ricadere nelle manie burocratiche o nelle trappole ideologiche che hanno avvelenato la sinistra vecchia e quella precocemente decrepita (il post-'68) di ieri. Compiti gravosi e bensì entusiasmanti attendono coloro che non s'accontentano di frasi fatte e di slogan, che non rinviano al futuro e non delegano "la politica" agli attuali leader di bassissimo profilo intellettuale e morale, incapaci di guardarsi allo specchio come di aprirsi alla realtà di un paese alla cui bruttezza hanno contribuito, ' suicidati infine dalla loro duplicità e dal loro cinismo - ricchi e pomposi predicatori, avvezzi alla bugia sino a farne una prima natura, chiusi gli occhi e la mente ai valori, campanilisti senza consapevolezza del mondo e della integrazione tra noi e il mondo, mediatori burocratici di un potere meschino, familisti amorali e ladri la loro parte. Un'epoca nuova si è ape1ta nella quale la validità di ognuno verrà messa alla prova, un'epoca che non tollererà gli infingimenti nei quali la sinistra è cresciuta e dei quali si è pasciuta. Non sarà facile starvi degnamente; si potrà essere molto soli e molto detestati, dalle maggioranze e dalle loro pressanti mascherature mediologiche, dalla meschina battaglia al loro interno tra una destra molto reale e una sinistra molto presunta. Si potrà anche essere più minoritari che mai e non bisognerà spaventarsene, né chiudersi. La nostra differenza dovrà essere più che mai quella di un agire ape1to, che leghi i fini e i mezzi, che difenda chi non può difendersi, ma anche, nell'affermazione di modelli e di principi, che leghi la possibilità e il dovere per tutti di contribuire a un futuro di Libere coscienze e di collettive trasformazioni. Foto di Paolo Titolo/Contrasto DOPO LEELEZIONI 7 ANALISIDI UN CASOELETTORALE PALERMOTRAORLANDOEBERLUSCONI MarcelloBenfante Cosa è successo a Palermo? La domanda che tutti si pongono è come mai, a soli quattro mesi dal trionfo plebiscitario di Orlando, sia stato possibile un voltafaccia dell'elettorato così netto e repentino. Su questo dato, inequivocabile, bisogna ragionare con molta calma, partendo dal presupposto che in democrazia non solo l'elettore ha sempre ragione e merita comunque rispetto, ma anche le sue sragioni esigono un'attenta considerazione. C'è una componente irrazionale del voto che bisogna ricondurre alla logica degli interessi sociali concreti in un duplice senso, sia cioè come comprensione delle cause profonde che hanno portato al successo del polo reazionario, sia come riaffermazione del primato dei contenuti e dei bisogni reali sui fumi demagogici della politica-spettacolo. Deaglio, a Milano-Italia, ha parlato del "ribaltone" di Palermo. C era già stato in verità l'inquietante segnale del ribaltone di Catania, in cui le elezioni provinciali avevano capovolto il responso di quelle comunali. Anche in questo caso però occorrerebbe analizzare in dettaglio tutta l'articolazione del voto, che già vedeva nell'ambito del Consiglio Comunale anche grazie alle aberrazioni di una legge elettorale regionale diversa da quella nazionale - un sindaco isolato e ridotto praticamente ali' immobilismo politico e amministrativo. Ma a Palermo davvero non è cambiato, nulla come ha scritto, acidamente Attilio Bolzoni su "Repubblica" del 30 marzo? Non direi. Bisogna andarci piano con certi giudizi tanto affrettati quanto ingenerosi e incauti. Si esagerava quando si proponeva Palermo come l'emblema di una società affrancata, e si esagera adesso ad affossarla gridando al tradimento. È assolutamente insensato giudicare la città soltanto sulla base delle oscillazioni del voto. È invece un dato di fatto innegabile che la società civile palermitana sia cresciuta e si sia data forme organizzative nuove, più mature e più efficaci, che tuttavia richiedono un lungo lavoro nel tempo per sortire risultati stabili anche sul piano prettamente elettorale. Palermo non è certo né redenta né liberata, ma questo ovviamente può stupire solo chi la guarda dall'esterno in maniera superficiale, basandosi esclusivamente sui dati percentuali della rappresentanza politica, e non certamente chi ci vive, chi ci opera, chi ne constata giornalmente i problemi incancreniti e aggrovigliati. La seconda domanda più ricorrente verte sul ruolo giocato dalla mafia. Sarebbe non solo scorretto, ma anche troppo comodo, banale e riduttivo interpretare il successo di Forza Italia sic et simpliciter come il risultato di un consenso indotto e pilotato da Cosa Nostra. Certo, la mafia è scesa massicciamente in campo con tutto il suo peso, arruolando forze nuove e riciclando la vecchia classe politica corrotta e collusa. Tutte le leve clientelari sono state azionate, ogni tipo di pressione è stato esercitato, ogni forma di coercizione è stata sapientemente attuata. Ma tutto ciò

8 DOPO LEELEZIONI non costituisce certo una novità né spiega interamente il dietrofront palermitano o la totale débacle della sinistra in Sicilia. Indubbiamente, l'anomalia della Sicilia nell'ambito di un Mezzogiorno complessivamente più aperto e ricettivo nei confronti del polo progressista, almeno rispetto alle aspettative della vigilia, indica chiaramente che Cosa Nostra è in grado di esercitare un controllo più stretto e più efficace del consenso di quanto non siano in grado di fare le altre forme di criminalità organizzata meridionali. Ma nel recente passato è stato dimostrato che l'ipoteca mafiosa può essere battuta o almeno arginata. Non si può del tutto escludere peraltro che l'anomalia siciliana nasca anche - in seconda istanza ovviamente - da una più diffusa, ancorché malintesa e fuorviata, esigenza di rinnovamento. Le ragioni dell'exploit di Forza Italia non si esauriscono tutte nell'indubbio appoggio del potere mafioso e della tangentocrazia, ai quali Berlusconi è calato con solerzia a promettere e garantire una rassicurante pax politica e giudiziaria. Possiamo allora dire che la sostanza della vittoria delle destre è la ricompattazione di un sistema di potere economico, politico e illegale che le lotte sociali, i movimenti di massa, l'opinione pubblica avevano gradualmente e parzialmente sfaldato. Ma ci sono molti altri fattori, più o meno secondari, che sarebbe miope e fallimentare non analizzare in modo rigoroso (compito che tuttavia sono costretto a lasciare ad altri, limitandomi qui soltanto a qualche fugace e frammentaria nota). A Innanzitutto bisogna considerare che c'è sempre stata una differenza rimarchevole tra il voto amministrativo e quello politico. La gente è disposta a concedere fiducia alla sinistra per quei che concerne il governo locale, ma non ancora per quello nazionale. Qui entra in gioco un complesso problema di credibilità e di immagine che si può solo rimandare ad ulteriori riflessioni. Ma certamente si può affermare che la battaglia dei progressisti è stata troppo difensiva, paradossalmente conservatrice, vertendo quasi esclusivamente sul mantenimento dello Stato sociale. A Palermo questo capovolgimento dei ruoli è stato ancora più evidente, dal momento che la sinistra era in campo come forza di governo. È escluso .che la Giunta Orlando sia stata giudicata nel complesso per il suo operato: nessuno ragionevolmente può imputare a un governo appena insediato una cattiva amministrazione che non ci sarebbe stato nemmeno il tempo materiale di mettere in atto. Tuttavia Orlando con alcuni discussi provvedimenti (peraltro nella sostanza opportuni ed encomiabili) ha toccato il punctum dolens delle clientele assistenziali suscitando il malcontento di alcune frange colpite nei propri interessi corporativi, a cui non ha fatto da contrappeso una consapevolezza dei benefici collettivi acquisiti. In sostanza, la Giunta si è subito fatta dei nuovi nemici senza però capitalizzare nuovo consenso. L'Orlando-dipendenza è stato sempre il limjte sostanziale della Rete (e non solo a Palermo), ma anche l'elemento "ariete" che ha consentito di scardinare il vecchio sistema di potere. Il caso Orlando è un chiaro esempio di effetto carismatico interclassista. Ma in queste ultime elezioni la sinistra è stata penalizzata da una spersonalizzazione della sua proposta, a cui peraltro corrispondeva nella parte avversa un'esasperata personalizzazione, anzi addirittura l'identificazione dello schjeramento con un volto e un'immagine. Orlando aveva raccolto un inaudito 75% di suffragi in un teteà-tete con un avversario, come Elda Pucci, di incomparabile modestia, in una situazione di vero e proprio tertium non datur. L'attesa messianica che aveva accompagnato l'irresistibile ascesa di Orlando alla guida della città (e che è imputabile solo in minima parte a un certo linguaggio evangelico del leader della Rete) si è convertita, per una sorta di effetto boomerang, in una precoce disillusione che ha spianato la strada alle lusinghe del1'Eldorado berlusconiano. Un certo massimalismo primitivo diffuso tra i ceti più provati e deprivati pretendeva un "tutto e subito" assolutamente chimerico confidando in proprietà taumaturgiche del neo-sindaco. Raggelata dalla cautela di una Giunta alacre ma anche riflessiva (e forse-nella fase iniziale- un po' troppo chiusa in sé) la città ha cercato altrove illusorie scorciatoie, credendo di vederle incarnate nelle figure vincenti e rampanti dei manager del Biscione. Dobbiamo abituarci a convivere con una estrema labilità e mutevolezza dell'opinione pubblica (espressione che-a rigordi termini~ oggi non significa più niente). Il consenso è effimero e fluttuante come la televisione stessa, che è lo strumento attraverso cui si costruisce. L'elettore usa il voto come il telecomando, mutando di continuo canale. C'è il rischio concreto che nei prossimi anni si verifichj l'avvento dello zapping elettorale. A Palermo il cambiamento di umore è dipeso in gran parte dalla diretta proporzionalità fra l'urgenza e l' enormùà dei bisogni e la disperata fretta di ampi settori della popolazione. C'è una necessità così immediata di risposte esistenziali (e spesso di mera sussistenza) che i normali tempi amministrativi non possono che generare ansia e malcontento. In questo humus di impaziente indigenza attecchiscono con grande facilità le formule miracolistiche, mentre deperiscono fatalmente i propositi di rigore e di realismo. La mitopoiesi berlusconiana ha affascinato la Palermo più disillusa e disperata e proprio per questo più disponibile alla .droga dei sogni televisivi. In una realtà per molti aspetti sudamericana, la macrotelenovela della Fininvest ha funzionato come oppio dei poveri. L'ostentazione dell'opulenza ha svolto un ruolQ cliseduzione e di garanzia. Nei quartieri popolari l'opinione più diffusa era che Berlusconi, essendo già ricco per conto suo, non aveva interesse a defraudare attraverso la politica la povera gente. C'è una sorta di pragmatico calvinismo popolare secondo cui la ricchezza e il successo sono sempre rivelazione palese di un'eccellenza a cui sarebbe in qualche modo "sacrilego" non dare fiducia. La politica è stata sempre considerata come ascesa al potere e non come discesa (quale deus ex machina) dal potere. Berlusconi "scende" in campo, non ha bisogno della politica, si mette anzi al servizio della politica. li meccanismo psicologico determjnato da questa teatralità annulla ogni discorso sui debiti attribuiti all'impero berlusconiano: lo status symbol per quanto acquistato a rate e ipotecato funziona sempre. Il miraggio delle minori tasse ha trovato a Palermo e in Sicilia un pubblico particolarmente ben disposto. C'è infatti un'antica tradizione anti-fiscale ("Governu 'talianu ti ringraziu/ca pi pisciari nun si paga 'u dazziu", recita una vecchia canzone popolare). Col suo sorriso "beautiful", Berlusconi ha promesso l'avvento di uno Stato utopico che tutto dà e nulla chiede (più lavoro e meno tasse), sostituendo all'idea dello Stato assistenziale quella dello Stato paternalistico (del Grande Padre telepantocratore). Contro un tale sfoggio di fascinazione, la sinistra ha schierato una serie di candidati di una modestia disarmante (e paradossalmente proprio i migliori sono stati i più penalizzati). Non solo in Sicilia il polo progressista non ha dirigenti di adeguato prestigio, ma è sprovvisto perfino di decenti quadri medi (come si diceva una volta). C'è bisogno urgente di un ricambio, di una trasfusione che attinga alle forze vive della società civile organizzata e della

cultura. Nella Rete, intorno a Orlando (che non è un leader "teorico" tradizionale) c'è un vuoto pressoché totale. Non meno desolante, con poche eccezioni, appare il panorama del PdS e della sinistra tutta. È stata proprio l'inconsistenza e lo scarso indice di gradimento dei candidati progressisti a determinare un fenomeno non ridottissimo di astensionismo di sinistra. Molti hanno ritenuto, con imperdonabile superficialità, di usare l'astensione come mezzo per inviare "messaggi" di dissenso. Va da sé che questa forma di comunicazione interna si è risolta in puro e semplice autolesionismo. Le tensioni interne, che erano trapelate subito dopo l'elezione di Orlando a sindaco-simbolo e che erano alimentate dal miraggio di veloci carriere politiche, si sono trasformate in quelle, più bieche e laceranti, del dopo-sconfitta. La virulenta polemjca di Mancuso, che ha accusato i vertici del movimento di averlo boicottato, potrebbe spiegare da sola (a posteriori, certo, ma non senza presagi) le ragioni e l'origine della disfatta dell'Invicibile Armata retina. La demonizzazione di Berlusconi, essendo in sostanza soltanto moralistica, ha sortito un effetto contrario che si potrebbe definire "faustiano" in quanto ha attribuito al Cavaliere un'onnipotenza che era tutt'altro che scontata. Ampi settori che rischiavano di perdere la propria posizione di privilegio non hanno esitato a stipulare un "patto col diavolo" abbandonando la mori- ' gerata moderatezza di un centro cattolico troppo intento a rifarsi una verginità politica e morale per essere efficace e credibile. Molti hanno votato per Berlusconi in base all'equivoco che lo designava come l'alfiere del nuovo. Ma molti lo hanno votato proprio in quanto lo sapevano sufficientemente corrotto e coinvolto nel vecchio regime da garantirne la continuità. Il rispetto del responso delle urne non vuol dire certo farsi illusioni sulla buona fede e le buoni intenzioni di tutto l'elettorato. Non nuoce ripetere ancora una volta che il livello di collusione colla mafia e col regime di Tangentopoli (che sono le due facce di una stessa medaglia) era ed è vastissimo. Se la politica era ed è marcia, non meno riprovevole è stato l'opportunismo di quanti nella cosiddetta società civile hanno approfittato senza ritegno dei vantaggi del sistema clientelare. Non penso che ci sia stata una sottovalutazione di Berlusconi come qualcuno ha detto. Era chiaro a tutti (e in primo luogo ai suoi sostenitori) che aveva a disposizione un potenziale enorme e che lo avrebbe utilizzato per tenere in vita un sistema di potere che non aveva più "facce" presentabili. In questo modo egli ha potuto capitalizzare poteri sommersi, occulti, latenti che lo hanno ulteriormente rafforzato. Penso invece che ci sia stata una sopravvalutazione della maturità (ovviamente senza dare alcun significato moralistico a questa valutazione) dèl popolo italiano e in particolare di certe realtà come quella palermitana. C'è nel paese (e in Sicilia lo dimostrano esperienze fino a ieri inimmaginabili come il nuovo corso intrapreso dai cittadini di Corleone) una volontà diffusa di riscatto e di rinnovamento. Ma vi sono anche ampie sacche di resistenza e zone d'ombra in cui la presa di coscienza stenta a maturare. La classe egemone si è ricompattata, ma ha dovuto ripartire dai suoi livelli più bassi. Forza Italia a Palermo è veramente il peggio del peggio, le scorie del passato più tenebroso e lo squallore di un nuovo anodino e insulso. C'è stato un vero e proprio avvento di sconosciuti che salgono sulla ribalta con l'arroganza dei parvenus. Ma questo sarebbe il male minore, se DOPO LEELEZIONI 9 consideriamo quanto danno hanno recato i volti noti della politica del malaffare. li guaio è che le nuove leve sono costituite da assolute nullità, il trionfo del più becero Uomo Qualunque. Il cavaliere inesistente si è circondato di un esercito di fanti e di scudieri di paglia. Il coordinatore regionale di Forza Italia è un personaggio di una mediocrità allarmante. Tanta miseria umana farà disastri paragonabili alle peggiori calamità naturali, ma almeno è un nemico che è costretto a uscire allo scoperto e a mostrare, insieme alla sua protervia, tutta la sua pochezza. La situazione diventerà per forza di cose sempre più chiara. "Il Giornale di Sicilia", che subito dopo l'elezione di Orlando aveva strizzato l'occhio alla nuova Giunta confermando la sua vocazione servile, ha preso subito a discettare, per bocca del suo direttore Giovanni Pepi, di un "meridionalismo liberista" a cui guardare senza preconcetti. Nei prossimi mesi la battaglia per l'informazione sarà a Palermo uno dei nodi centrali dello scontro politico. Occorre al più presto spezzare il monopolio asfissiante del "Giornale di Sicilia". La città ha bisogno al più presto di un quotidiano che esprima le convinzioni e i valori della sua parte sana. Ma occorre anche, qui e dovunque, una strategia globale di aggiramento del monopolio televisivo. Se tre mesi di bombardamento catodico hanno fatto risorgere gli zombie di Tangentopoli e della destra più forcaiola, un'intera legislatura sotto il segno del telebiscione può irreparabilmente lobotomizzare la nazione intera. GIUNTI

10 STUDENTI TALVOLTA SI PUÒ ANCHE VINCERE lA BATTAGLIA DIMARZODEGLISTUDENTIFRANCESI FabioGambaro AU . -· o ,~[tSCL~ •.. •· sjfU ,,... ..--:-1 V r - ,...; l. Gli studenti francesi hanno vinto la battaglia di marzo. Di fronte alle decine di manifestazioni che hanno riempito le strade di tutte le principali città francesi, il governo Balladourèstatocostretto a ritirare il decreto con il quale alla fine di febbraio aveva istituito il Contratto d'Inserzione Professionale (Cip). Questo prevedeva per i neoassunti minori di 25 anni compensi limitati all'80% del salario minimo previsto per legge: un giovane diplomato con due anni e passa di studi universitari o parauniversitari alle spalle avrebbe guadagnato solamente 3.800 franchi, senza alcuna contropar1ita in termini di orario e di formazione, e senza garanzie per il futuro. Insomma, retribuiti di meno solo perché giovani. Di fronte a una simile proposta, gli studenti francesi-peri quali la scuola rappresenta una delle poche possibilità di promozione sociale - non potevano che sentirsi beffati. Il Cip avrebbe ridotto drasticamente il valore aggiunto dei loro diplomi. Perché studiare allora? E come vivere con un salario di 3.800 franchi? E una volta raggiunta l'età del salario completo, come evitare di essere licenziati per far posto ad altri giovani retribuibili all '80%? Come combattere Fotodi leynse/Réa/Contrasto la sempre più vasta disoccupazione giovanile? Queste ed altre incertezze hanno spinto i giovani dei licei e delle università a scendere nelle piazze, con l'inevitabile sequenza di scontri e violenze che tanto hanno impressionato l'opinione pubblica francese. In realtà, di fronte all'ampiezza della mobilitazione, gli episodi di violenza sono stati tutto sommato marginali. Assai significativo è invece il fatto che le manifestazioni non si siano svolte solo a Parigi, dove le mobilitazioni sn,dentesche raccolgono tradizionalmente maggiori adesioni, ma anche e soprattutto in provincia, nei luoghi cioè dove la disoccupazione si fa sentire con maggiore intensità: a Lione, a Marsiglia, a Lilla, a Bordeaux, a Tolosa, a Grenoble, a Metz, ecc. In tre settimane, le quasi trecento manifestazioni che si sono svolte in tutto il paese hanno raccolto almeno un milione di giovani manifestanti. Era parecchio tempo che in Francia non si vedeva nulla di simile. Il crescendo e la determinazione della protesta hanno sorpreso

tutti, e innanzitutto i pubblici poteri. Come già di fronte ad altre manifestazioni di malcontento (la vertenza dei lavoratori di Air France, le proteste per i finanziamenti alle scuole private, la rivolta dei pescatori, ecc.), il governo francese ha dovuto fare precipitosamente retromarcia di fronte a un malcontento che non è stato capace di prevedere né di contenere. A nulla sono valsi i suoi tentativi di mascherare la vera portata del decreto e, in seguito, di scendere a compromessi, trasformandone in pa1te i contenuti. Allo stesso modo, è stato inutile e patetico il tentativo del primo ministro di dialogare con i giovani rivoltosi, ai quali non ha saputo proporre nient'altro che un atteggiamento paternalistico distante anni luce dai loro linguaggi e dalle loro preoccupazioni. Simili incertezze non hanno fatto altro che allontanare ancora di più il Palazzo dai giovani nelle piazze, i quali, mobilitandosi con sempre maggiore efficacia, alla fine hanno messo il governo alle corde, costringendolo a ritirare quello che essi consideravano come un insulto alla loro età e ai loro sforzi per prepararsi al mondo del lavoro. Al di là di ogni considerazione tecnica sull'efficacia o meno del Cip in termini di nuova occupazione, il fatto è che il provvedimento era diventato agli occhi degli studenti il simbolo di un'ingiustizia e di un tradimento, nonché della miope testardaggine di chi l'aveva inventato. Di conseguenza, è venuta meno ogni possibilità di mediazione e il governo non ha potuto far nulla per arginare la collera giovanile. Oltretutto, via via che la situazione si faceva più tesa, sono emerse una volta di più le divisioni esistenti all'interno del la destra che governa i I paese, la quale è ormai in preda a laceranti lotte intestine in vista delle presidenziali dell'anno prossimo (Chirac oBalladour?). Di conseguenza, rinunciare al progetto era l'unica via d'uscita per cercare di limitare i danni ed evitare un'insanabile frattura sociale. Così è stato. E gli studenti hanno trasformato la loro manifestazione nazionale del 3 l marzo in festa della vittoria, anche se naturalmente erano ben consapevoli che il ritiro del decreto in realtà lasciava immutate tutte le loro inquietudini. La sconfitta del governo infatti non crea nuovi posti di lavoro: con o senza Cip, la disoccupazione resta la stessa. 2. Nonostante i fantasmi del maggio francese che ritornano ogni qualvolta gli studenti d'oltralpe scendono in piazza, e nonostante la drammatizzazione degli avvenimenti operata dai media e dalle autorità, i giovani che hanno sconfitto Balladour non sono rivoluzionari né aspiranti tali. Il '68 al massimo è un fantasma dei loro genitori. Gli studenti protagonisti di questa rivolta, infatti, non mettono in discussione né la scuola né la società, non respingono l'ideologia borghese né si illudono sulla creatività al potere. Al contrario:sono piuttosto conformisti e conservatori, almeno stando a quanto ci dicono le innumerevoli inchieste a loro dedicate che sono state pubblicate in Francia negli ultimi tempi. Il lavoro, la famiglia, il denaro, la nazione sono nozioni a cui dichiarano di aderire senza troppi complessi. Si sentono lontani dai sindacati e dai partiti politici, destra e sinistra senza troppe distinzioni, perché questi non sono in grado di garantire il loro avvenire minacciato dalla crisi. Sono scesi nelle piazze non per una spinta ideale o per cambiare il mondo, ma solo per paura della disoccupazione e per difendere il valore commerciale dei loro diplomi scolastici. In fondo, potrebbero essere assimilati a una delle tante categorie che di questi tempi difendono in maniera corporativa i propri interessi. Quello che li muove è la paura, la mancanza di prospettive, cui molto spesso per altro si accompagna la mancanza di ideali. Sono i figli delle classi medie colpite in pieno dalla crisi; i figli del qualunquismo degli anni Ottanta, con parecchi soldi di meno e lo spettro della disoccupazione in più; i figli della morte delle ideologie, della cultura dell'effimero e dello zapping televisivo. STUDENTI11 Insomma, niente a che vedere con il '68econ leutopierivoluzionaiie del )oli mai. Sarebbe però sbagliato limitarsi a queste considerazioni, poiché probabilmente le manifestazioni contro il Cip esprimono anche qualcos'altro, vale a dire un malcontento e un malessere diffusi che vanno al di là delle semplici 1ivendicazioni economiche. Mai come oggi torna in mente il celebre incipit di Aden Arabia, le cui parole sembrano riassumere a perfezione lo stato d'animo della gioventù francese. "Avevo vent'anni e non permetterò mai a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita." Le centinaia di migliaia di manifestanti che hanno invaso le strade di Francia esprimevano proprio questo sentimento di incertezza e di paura di fronte ali' orizzonte cupo del loro avvenire alla fine del millennio. I ventenni di oggi sono una generazione che deve fai·e i conti con la disoccupazione, l'aids, il degrado delle periferie, la droga, la fine delle ideologie: è una generazione no future che si sente esclusa e minacciata, incompresa dagli adulti e dalla società. È per questo che manifesta. Non vuole essere una generazione sacrificata. Inoltre, alla rivolta sociale degli studenti - i disoccupati di domani che sperano di sfuggire all'esclusione attraverso la scuola - si è sovrapposta la rabbia esplosiva di quanti sono già di fatto esclusi ed emarginati da una società che sembra ignorare i loro più elementari diritti. Sono i giovani dei ghetti urbani delle periferie, spesso di origine maghrebina e africana, nel cui futuro non c'è , alcuna prospettiva al di fuori della spirale disoccupazione/ violenza I droga I criminalità. Per i giornali sono i casseurs, quelli che rompono tutto al loro passaggio, che certo hanno poco a che fare con le manifestazioni degli studenti, ma solo perché, più in generale, hanno ormai poco a che fare con una società che li respinge e li mette al bando. Questi giovani e giovanissimi senza speranze rappresentano la realtà drammatica e violenta di una società in cui il numero degli esclusi dal benessere, dall'istruzione, dal lavoro, dalla cultura continua ad aumentare. Alcuni di loro finiscono a ingrossai·e le file dell'estrema destra o dell'integralismo religioso, altri praticano una microcriminalità diffusa per vendicai·si nei confronti della società e per impossessarsi di una parte di quella ricchezza da cui sono esclusi. Non hanno più nulla da perdere: la violenza è solo un modo per comunicare la loro rabbia e la loro disperazione. Le manifestazioni di marzo allora, al di là del Cip, hanno fatto emergere il grado di malcontento e di rivolta presente in larghi strati delle giovani generazioni. Anche nella Francia ricca e privilegiata, dove lo Stato sociale è una realtà efficace e funzionante, i colpi della crisi spingono sempre di più larghi strati della popolazione verso una depauperizzazione che si trasforma immediatamente in emarginazione. E su questo terreno, per altro, la destra ha ce1tamente meno scrupoli e preoccupazioni della sinistra, sebbene quest'ultima si fosse spesso limitata a esprimere progetti e intenti mai realizzati. Tutto ciò fa paura. Più ancora ai giovani che agli adulti. I più anziani infatti sembrano accettare la lenta deriva dell'esclusione con un fatalismo proporzionale alla loro delusione, i giovani invece esprimono la loro impotenza sociale e il loro rancore nei fuochi fatui della guerriglia urbana. Questa miscela di esclusione, angoscia e desiderio di rivalsa ha già incendiato più volte i ghetti urbani delle grandi città francesi. Questa stessa miscela è ali' origine delle derive violente di alcune delle manifestazioni di marzo. Se non sarà fatto nulla, la rivolta esploderà di nuovo. Altrove e all'improvviso. T nsomma, se la rabbia e le paure di questi giovani non verranno prese in considerazione, se il loro dramma non verrà capito, se non sarà fatto nulla per riavviare il dialogo, se non sai·à evitata la disintegrazione sociale di interi quaitieri, allora "l'intifada delle periferie", come già la chiamano alcuni giornali francesi, ricomincerà assai presto. E sarà sempre più difficile contenerla.

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