6 DOPOHEBRON , ', . , , 1 LAPACENON SI FERMA J oaqufnSokolowicz Appena dieci giorni dopo la strage di Hebron, ripartendo da Israele, si aveva la sensazione netta che le trattative di pace fra Israele e l'OLP- che erano sembrate irrimediabilmente compromesse - sarebbero riprese in un modo o nell'altro. Stavano perdendo colpi, nei due campi, i nemici delJa coesistenza dei rispettivi popoli su territori separati, gli uni e gli altri decisi a sfruttare a vantaggio dei propri e coincidenti propositi il momento di furore scatenato da quel massacro di decine di palestinesi inermi. Infatti mentre scriviamo si prospetta (non è ancora una certezza) la ricomposizione del meccanismo diplomatico secondo la logica. Che per il Medio Oriente non è per forza- la nostra logica politica - una base solida di previsioni sull'esito di qualsiasi crisi. Gli interessi particolari e quelli generali, le divisioni di ogni tassello del mosaico regionale e le solidarietà autodifensive di fronte ad agenti esterni, le antiche rivalità fra i componenti diversi della famiglia musulmana e la comune avversione nei confronti di altre religioni presenti nell'area, la brutalità di dittature peraltro considerate realtà naturali nel mondo arabo e le spinte democratiche di settori avanzati in alcune delle società soggiogate, oltre alle convenienze di questa o quella amicizia internazionale, rendono mutabili le posizioni più ferme. Tra i palestinesi dei territori occupati, dall'elezione di un consiglio universitario ad un'altra del direttivo di una camera di commercio, nel giro di pochi mesi o addirittura di settimane spesso si rovesciano radicalmente le proporzioni dei settori politici; i pragmatici moderati dell'OLP passano dalle stelle alle stalle ed i fondamentalisti islamici radicali risorgono dalle ceneri per essere collocati sugli altari, anche perché il voto è determinato da successi o insuccessi contingenti. Se tuttavia valesse per questa realtà la logica da società occidentale-laica-economicamente sviluppata, il "processo di pace" mediorientale si dovrebbe riannodare. Ecco le ragioni: i palestinesi non hanno alternative a scadenza prevedibile per evitare ulteriori sconfitte belliche; gli israeliani non hanno alternative nella ricerca di una sicurezza stabile e di uno sviluppo economico non più assoggettato ali' ipoteca delle necessità militari; la Siria non ha più la protezione dell'ex Unione Sovietica (poco e incerto è quello che si può ottenere dalla nuova Russia) e quindi è costretta ad accostarsi agli Stati Uniti mentre dipende sempre dall'assistenza finanziaria di quell'altra promotrice dei negoziati israeliano-palestinesi che è l'Arabia Saudita; la minaccia del dilagante integralismo islamico sostenuto daH'Iran spinge tutti questi protagonisti della scena mediorientale a costruire alleanze strategiche prima impensabili. Se poi la Siria si associa pienamente al processo di pace, i regolamenti arabo-israeliani diventano globali mentre quasi tutti i gruppi palestinesi estremisti perdono il suo determinante sostegno. Qualche parola filtrata dalle stanze dei frenetici contatti diplomatici intrapresi appena interrotte le trattati ve di pace ha incoraggiato la previsione che alla fine questa logica sarebbe stata rispettata. In conversazioni con il segretario di stato americano, Warren Christopher, il leader palestinese Yasser Arafat rassicurava l' interlocutore dicendo che nonostante le dichiarazioni lapidarie dell 'OLP si trattava di "attendere un po' di tempo" perché le cose si rimettessero a posto, mentre il ministro degli esteri siriano Al Charaàh usava a proposito dell'interruzione dei negoziati la tranquillizzante definizione "pausa" invece di ripetere il termine "rottura" dei proclami lanciati per il consumo dell'opinione pubblica interna e aJlo stesso tempo per ottenere dalla diplomazia internazionale - in cambio di un contributo decisivo alla soluzione deJla crisi- l'affidamento al presidente Hafez el-Assad del ruolo di protagonista del processo di pace già svolto dall'inviso (ad Assad) capo dell'OLP. In quelle ore Arafat era stato messo in minoranza nel comitato esecutivo della sua organizzazione dagli oppositori alla ripresa dei negoziati, e si era dovuto far portavoce delle condizioni poste dai duri per riannodarli. Si è poi visto nei fatti un ridimensionamento di quelle condizioni nel giro di pochi giorni: dall'esigenza di smantellamento totale degli insediamenti ebraici nei territori occupati si è passati a parlare quasi solamente di queJlo, Kyriat Arba, da cui proveniva l'assassino di Hebron; e si è registrato un graduale avvicinamento tra le posizioni di partenza riguardanti la forza multinazionale reclamata da]]' organizzazione palestinese per proteggere la popolazione dei territori occupati: un contingente militare dispiegato su tutti i territori (voluto dall'OLP) o un corpo di osservatori civili soltanto nella Striscia di Gaza e a Gerico (come ribatteva Israele). E non risulta che ci siano state repliche di intransigenza provenienti dall'OLP di fronte alle offerte israeliane di procedere entro pochi giorni al previsto ritiro delle forze d'occupazione da queste due aree, dopo mesi di rinvii, in cambio del ritorno dell'organizzazione palestinese, senza troppe esigenze, al tavolo dei negoziati. I fondamentalisti ebrei armati Lo stabilimento di nuclei di popolazione israeliana a Hebron, uno nel cuore stesso e un altro su una collina a ridosso di questa città che è araba da secoli, è emblematico dell'atteggiamento provocatorio dei sostenitori dell'espansione della patria ebraica sul l'intero suo territorio storico. Circa venticinque anni fa un vecchio casamento del centro fu occupato con un pretesto da un gruppo di famiglie di fanatici religiosi. Non molto tempo dopo cominciò la costruzione dei primi appartamenti di Kyriat Arba sull'altura che domina Hebron. Erano così entrati in azione gli estremisti di Gush Emunim ("Blocco della fede"), guidati dal rabbino Moshé Levinger. Oggi sono 450 gli ebrei che vivono armati fino ai denti in mezzo agli 80 mila abitanti palestinesi, sotto l'occhio vigile di altri 5 mila nelle loro case sulla collina. "Insediamento" e "colonia" sono poi parole che non rendono al lettore ignaro l'idea esatta delle cittadine dotate di ogni comfort quali sono in buona parte i luoghi in cui risiedono i "coloni". DaKyriat Arba è uscito armato del suo fucile mitragliatore Baruch Goldstein, per aprire il fuoco ali' alba di venerdì 25 febbraio contro i palestinesi che iniziavano la giornata di preghiera. Luogo sacro per musulmani e per ebrei, la tomba di Abramo o Ibrahim. C'è voluto il crimine orrendo perché il governo israeliano mettesse fuori legge due gruppuscoli razzisti, desse la caccia ad alcuni terroristi antipalestinesi noti e ordinasse ai militari di sparare contro i provocatori anche se coloni - prima intoccabili, spesso, secondo alcune testimonianze di soldati -. Per la verità avrebbe dovuto pensarci prima, questo governo che del resto ha dimostrato
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