TomHankse DenzelWashington interpretidi Philodelphio. mia, ha finora preferito il silenzio, il diniego o, al più, la via comoda di una correttezza politica che, da qualche anno in qua, nelle varie pellicole commerciali tipo Arma letale 1/2/3, ci regala sb1igative battutine d'obbligo sull'uso del preservativo. Ma Philadelphia fa qualcosa di più. Rifiutando il classico diktat hollywoodiano e cornmercialtelevisivo che "i temi scottanti vanno evitati oppure ridotti al tepore rassicurante di trame totalmente fittizie", sceglie di raccontare una storia plausibile. Non una storia vera -e ce ne sarebbero state decine di migliaia - , ma una storia a suo modo esemplare, capace di appassionare il vasto pubblico, di scuoterlo senza turbarlo troppo, di familiarizzarlo con il problema senza metterlo sulla difensiva. Se protagonista del film, tanto per essere chiari, non è una delle cosiddette "vittime innocenti" care alla stampa non solo americana - bambino, emofiliaco, trasfuso, donna ignara, eterosessuale sfo11unato- né uno dei loro desolati genit01i, partner, maestri di scuola, e se questo fa onore a Demme e a Nyswaner, non lo è però neanche un tossicodipendente, un nero, un portoricano o semplicemente un povero cristo. Chi potrebbe mai iiconoscersi nella sua storia o con essa solidarizzare nella sempre più puritana, punitiva e sessualmente virtuale America d'oggi? Andrew Beckett (Tom Hanks) è sì omosessuale ma, guarda caso, anche bianco e avvocato, insomma un rappresentante di serie A della società che conta. Sarà la malattia, non l'orientamento sessuale, a minacciarne la posizione sociale. L'aggancio con il vasto pubblico è chiaro: De1ru11enon sta proponendo di riconoscersi nelle scelte sessuali di un gay, né di simpatizzare con lui e neppure di compatirlo per l'orribile malattia che gli è capitata, ma di mettersi nei panni di un professionista che, d'improvviso, si vede minacciato in quanto di più sacro, almeno in terra americana, ci sia: il lavoro e il denaro. E questa è davvero una cosa che può capitare a tutti, per le ragioni più vaiie: il mercato del lavoro, soprattutto in tempi di crisi, ha una capacità fulrninea di chiudere le porte davanti a chiunque. Tu potresti essere il prossimo. E non c'è privilegio sociale che possa proteggerti. Con una correttezza politica pari solo al suo istinto di grandeentertainer, Demme affida la parte dell'avvocato che difende la causa di Beckett contro lo studio legale che lo ha licenziato niente meno che al nero, eterosessuale e omofobico Joe Miller (Denzel Washington). Né, nel film, ci sono colpi di scena: Joe Miller non capitolerà e, ultima scena inclusa, rimarrà rigidamente sulle sue posizioni. Niente abbracci o comprensione, nessuna inc1inatura nel suo sistema di valori. La lezione, secondo Demme, è che i diritti sono diritti e vanno difesi in ogni caso. Anche quelli dell'Altro, del diverso, per la buona ragione che tutti, ciascuno a suo modo, siamo diversi o potremmo diventarlo. Più che un film sull 'Aids, Philadelphia è dunque un film sulla discriminazione e contro ogni più o meno velata forma di razzismo. E in questo il regista dimostra di conoscere bene poteri e limiti del mezzo filmico hollywoodiano e di saperlo usare al suo meglio. Inutile tentare la frontalità all'interno dello Studio System: primo perché non te lo lascerebbero fare e poi perché ti alieneresti il pubblico. Ecco perché Demme può dichiarare che è "inutile fai·e un film sulla malattia - è risaputo che non funzionano- o un film che parli solo ai giàconve11iti"e, allo stesso tempo, produrreRoyCohn/ JackSmith, una pellicola che, Philadelphia permettendo, avrebbe volentieri diretto in proprio. Scritto da Gary Indiana e portato sulle scene teatrali da quello straordinario attore che è Ron Vawter del Wooster Group, Roy Cohn/Jack Smith è infatti uno dei testi più radicali, complessi e "iiTecuperabili" che l' emergenzaAids abbia prodotto in terra americana. Intanto perché in nessuno dei due lunghi monologhi che lo compongono è prevista la possibilità di orientarsi tra bene e male, giusto e ingiusto, buoni e cattivi, ed è dunque scrutata in pa1tenza la possibilità del messaggio positivo, non contraddittorio, edificante. Roy Cohn, avvocato maccartista (fu lui a mandare sulla sedia elettrica Ethel Rosenberg) e anima nera della moderna repressione antigay negli Stati Uniti, e Jack Srnith, autore e regista teatrale e cinematografico tra i più brillanti e scomodi della sperimentazione nordamericana degli anni Settanta, entrainbi gay e entrambi morti di Aids negli anni Ottanta, sono ciascuno a suo modo un emblema del male. Ufatto di essere morti di Aids, ci dice il film indipendente di Demme, non li riscatta, ma neanche li definisce. Se vogliamo sapere qualcosa di loro dobbiamo andare a ritroso nelle loro vicende di uomini pubblici e p1ivati, interrogaITie comportamenti, scelte, paure, ipoc1isie, a prescindere dalla malattia. Dobbiamo soprattutto sforzai·ci di uscire dalla logica binaria che vede sempre e solo vittime e caITiefici,eroi e canaglie. Roy Cohn per l'appunto, gay da sempre, perché nessuno sospettasse il suo segreto, praticava pervicacemente e per eccesso la politica del diniego: come Hoover, altro celebre gay in the closet, lui gli omosessuali li voleva morti, disc1iminati, perseguitati e a tal fine si fece promotore della peggior legislazione antigay della st01ia an1e1icanacontemporanea. Ma, di nuovo, nell'interpretazione teatrale e filmica di Ron Vawter, Cohn non esce demonizzato: la sua è una vicenda in qualche modo esemplare, che la dice lunga sui labii·inti e sulle ipoc1isie del puritanesimo e della democrazia nordamericani e sull'impossibilità di uscirne da soli. Sarebbe ottimo se, insieme a Philadelphia, qualcuno in Italia si prendesse la briga di far circolare anche il Dernme n. 2. Giusto perché pubblico e critica non siano indotti a credere che del!' Aids non si possa che tacere, parlare indirettamente o come se si raccontasse la favola di Cappuccetto rosso.
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