CHRISTOPHERLASCH EGLI INGANNI DELPROGRESSO Filippo La Porta In un bel saggio-rilettura di 1984 di Orwell ("Salmagundi", n. 65, 1984) Christopher Lasch si soffermava sulla questione, assolutamente centrale nell'ultimo Orwell, della "morte priva di significato" che minaccia iI nostro tempo. In particolare osservava che la forza di quel romanzo deriva non tanto dalla profezia politica ma "dalla drammatizzazione di un mondo in cui la morte è di ventata sempre più insopportabile, a causa della paura che alle nuove generazioni non importerà nulla di noi". A queste parole ho ripensato dopo aver appreso della morte di Lasch, un autore molto caro ad una parte della mia generazione, soprattutto per il fondamentale saggio sul narcisismo apparso 15 anni fa, che intrecciava felicemente molteplici competenze (sociologia, psicanalisi, filosofia) con una acuta sensibilità morale. E mi sono subito chiesto se (nei termini stessi della formulazione orwelliana), una volta caduta la fede nell'immortalità personale, davvero per l'umanità si schiuda oggi quel surrogato di immortaFolo di Ken Howkins lità dato dalla speranza in una cultura comune, capace di sopravvivere alla morte dei singoli. Certo, Lasch era piuttosto scettico sulla effettiva durata (per noi oggi) di un mondo riconoscibile fatto di persone e di cose, sulla continuità sperimentabile di una vita pubblica comune, proprio perché abitiamo in un mondo sempre più irreale, immateriale, composto prevalentemente di immagini e astrazioni (questo era proprio il nodo di tutta la sua riflessione, almeno a partire dalla metà degli anni Ottanta). Ma, dando per scontato questo sfondo storico (assai verosimilmente cupo) disegnato da Lasch nei suoi libri, vorrei ora chiedermi: le sue idee, le sue riflessioni e i suoi scritti, potranno contare su un ascolto non effimero, non contingente, che va ben oltre la sua scomparsa? Personalmente credo di sì, nonostante la disattenzione con cui è stato (finora) accolto da noi il suo ultimo, ricchissimo saggio (Il paradiso in terra). E credo di sì per alcune ragioni che tenterò ora di esporre sinteticamente. Innanzitutto perché Lasch sapeva cogliere con estrema sensibilità gli equivoci e gli inganni del "progresso" (inteso nella sua accezione più ampia), il carattere insopprimibile di certi bisogni dell'essere umano, ricordandoci verità forse ovvie ma oggi spesso dimenticate (ad esempio "Gli uomini e le donne ... hanno bisogno di credere che le loro scelte comportino delle conseguenze serie"; o anche: "La lealtà ha bisogno di indirizzarsi a persone e luoghi specifici, non a un astratto ideale di diritti umani universali". Poi perché in ogni riga dei suoi saggi si avverte il nesso intimo, a volte drammatico, che lega la riflessione alla biografia, il pensiero all'esistenza. La sfiducia dell'autore verso le ideologie della (vecchia e nuova) sinistra, comincia negli anni Settanta, non in base ad una necessità di revisione teoretica, ma nel momento in cui semplicemente vede il mondo come genitore ("vedere il mondo moderno dal punto di vista di un genitore significa vederlo nella peggior luce possibile"). Né questa sfiducia comporterà mai adesione alla nuova destra, allo yuppismo e al reaganismo, di cui è anzi uno dei critici più sottili. Proprio nella sua ultima, voluminosa fatica (Il paradiso in terra, prima citato) Lasch ci abitua ad associare tra loro cose, temi, persone, valori, che la nostra pigrizia intellettuale e il nostro conformismo non avevano mai associato: lotte sindacali e puritanesimo, populismo e tradizione calvinista, Sorel e la resistenza non-violenta di M.L. King, consapevolezza tragica del l'infelicità umana e desiderio di trasformare la realtà, apologia conservatrice (da parte di Burke) del "pregiudizio" e solidarietà con gli oppressi, e perfino la nobile campagna a favore del busing (contro la discriminazione razziale nelle scuole) e l'endemica astrattezza ipocrita dei liberal benestanti, ecc. E infine la capacità che ha questo autore di parlare ai posteri si misura sulla straordinaria qualità comunicativa della sua prosa (qualità che oggi troviamo quasi solo nei paesi di lingua inglese): un linguaggio semplice e insieme brillante, rigoroso e polemico, preciso e divagante, abituato al dialogo civile e alla confutazione puntuale (così distante da quello dei nostri giornalisti-letteratituttologi o dei nostri filosofi-politici). Benché salutato da alcuni come una sorta di nuovo profeta o guru intellettuale, e malgrado certa sua popolarità nei campus americani, la riflessione di Lasch sembra lontana da esiti demagogici o spettacolari: non offre mai certezze, ma si preoccupa soltanto di porre le domande giuste. Credo in definitiva (o almeno voglio sperarlo) che questo autore rappresenti oggi, con le cose che ha scritto e con le sue scelte di vita, uno straordinario modello intellettuale che si offre alle generazioni presenti e future. Sull'opera di Lasch "Linea d'ombra" ospiterà in un prossimo numero una riflessione a più voci.
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