Linea d'ombra - anno XII - n. 91 - marzo 1994

- VEDERE,LEGGERE,ASCOLTARE 73 HeNé Guibert. l'individuo in funzione del mondo), può, deresponsabilizzato e avvi lito dalla sua evidente impotenza e dal suo galoppante stato confusionale, far mestiere della frustrazione, del lamento, della sempre più balbettante e isterica rivendicazione di una felicità da danni di guerra. Se ognuno di noi ha, nel corso del tempo, subito dei torti (in famiglia, nella società, sul lavoro) e se ognuno di noi ha diritto alla felicità, si tratterà di denunciare quanto si è patito, di individuarne i colpevoli e di esigere un risarcimento. La felicità è, per chi assume lo status di vittima, un bene a portata di mano, una mera questione di contabilità, un diritto inequivocabile. Pensiero in bianco e nero, buono e cattivo, colpa e innocenza, vittima e carnefice. Mai un ragionamento sulle complicità, sulla complessità. Mai che si affacci neppure per sbaglio l'ipotesi che la felicità - se proprio si vuole usare questo termine - non sia qualcosa che ci è stato rubato, ma qualcosa che va costruito proprio sulla cancellazione o negazione di un diritto di natura. Hervé Guibert e Nanni Moretti, l'uno malato terminale di Aids, l'altro di un tumore curabile al sistema linfatico, avrebbero potuto, raccontando dei loro personali calvari (ma già questa parola non piacerebbe a nessuno dei due e meglio sarebbe, forse, usare il termine avventura) di malattia, adottare la chiave esibizionistica del vittimismo. Come vari altri autori negli ultimi mesi, avrebbero potuto farci commuovere o inorridire, spingerci all'identificazione o al suo contrario, farci piangere o correre al riparo di una ben dosata indifferenza. E i loro diari avrebbero potuto essere esercizi di necrofilia, monodimensionali e iperrealisti, falsi come tutto ciò che nega alla vita la sua incredibile ricchezza e contraddittorietà. Invece, ci dicono questi due testi, chi sta male non coincide con la sua malattia, non diventa la sua malattia: è vivo a pieno titolo e pienamente umano, humour, dignità, vitalità, capacità di immaginare il futuro e di pensare possibile l'amore inclusi. Inclusa, soprattutto, la capacità di commentare la malattia, il discorso culturale che la accompagna e il sistema di potere in cui è inserita. In una delle scene iniziali del film, Moretti, sdraiato su una brandina in attesa dell'ultima flebo della chemioterapia a cui è stato sottoposto dopo l'intervento chirurgico, si fa bendare la fronte e coprire il capo da un casco. Per il sacrosanto desiderio di proteggersi i capelli. Potrebbe sembrare un atto di banale vanità. E certamente è anche questo. Ma di simili gesti è fatta· la vita, fino all'ultimo, eci sono momenti in cui la vanità diventa tutt'uno con la dignità, con il senso della propria umanità. "L'infermiera", scrive a pagina 43 Hervé Guibert, "entra trionfalmente alle sette e mezzo del mattino con un camice di . carta blu trasparente. Vuole che Io indossi completamente nudo e mi permette di tenere lo slip. Le dico: 'Dovrà aspettare che io sia ridotto molto peggio di quel che sono per riuscire a farmi attraversare un ospedale con questo affare. Il solo modo per farmelo accettare sarebbe per lei che scendesse con me nella stessa tenuta, la mano nella mano, e l'autorizzerei a tenere il reggiseno come lei mi autorizza a tenere lo slip' ... La faccia della furbastra quando mi ha visto passare, da solo, completamente vestito, il cappello in testa, il camice trasparente azzurro sulla spalla, per scendere in sala operatoria: sbalordita, non c'è altra parola ... Il camice azzurro trasparente non serviva a niente, solo a umiliare". Raccontare di sé, di questi episodi minimi di sopravvivenza individuale, è il contrario esatto del narcisismo. Quel che ne esce infatti non è un semplice e più o meno compiaciuto autoritratto d'autore, bensì una lucida fotografia d'insieme. A essere descritte, attraverso i casi in cui chi scrive o filma è protagonista, sono la società e le sue istituzioni: in primis il sistema dell'assistenza, con le sue gerarchie, la corruzione, l'inutilità, la stupidità, il malcostume. Tanto nell'ospedale parigino di Guibert, quanto in quello romano di Moretti, il contenitore della flebo è in equilibrio precario: su un'asta difettosa, l'unica a disposizione, nel primo, su una scala per le pulizie nel secondo. E paradossali nella loro arbitrarietà e inesattezza sono i comportamenti dei medici e del personale paramedico, il pressappochismo, l'ignoranza, l'indifferenza che governano il rapporto di cura. "Il rischio di nuocere a qualcuno", annota Guibert di fronte ai continui e inauditi segni di mancanza di professionalità e di disaffezione delle infermiere, "di far perdere il lavoro a una persona che per forza ne ha bisogno, altrimenti non lo farebbe, se non per vocazione: nemmeno la nozione di vendetta, ma semplicemente la nozione etica che ciascuno deve far bene il proprio lavoro. Anche Io scrittore può cadere, se all'improvviso si mette a scrivere stupidaggini o cose inaccettabili". Ecco, esattamente questa coscienza della reciprocità, della responsabilità verso gli altri, fa dei racconti di Guibert e di Moretti, dei testi eccezionali. Come se proprio la vigile consapevolezza di sé, della propria fallibilità e relatività desse forza alla denuncia sgombrandola da ogni moralismo. Citomegalovirus e Medici sono due opere piene di vita, d'ironia e autoironia e l'aria vi circola abbondante. Potevano essere cupe e depressive oppure rabbiose e rivendicati ve e invece ne è uscita una scrittura lievissima e traboccante di grazia: due testi freddi pieni di calore, di urgenza e di utilità, due testi che "fanno del bene".

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