Linea d'ombra - anno XII - n. 91 - marzo 1994

72 VEDERE,LEGGERE,ASCOLTARE primo a tal punto inviso a Meneghello da fargli coniare una delle più azzeccate boutades dell'intero libro: dopo aver letto L'isola di Arturo Meneghello prese l'abitudine di chiamare Moravia "il marito del maggior romanziere italiano vivente". Che il romano Moravia fosse poco disponibile a sromanizzarsi e dunque avesse poche possibilità di incontrare la simpatia, non dico di un veneto dispatiiato, ma anche di un inglese-inglese come Sir Jeremy, decano a Reading, è infine provato dal giudizio che Meneghello e lo stesso Sir Jeremy danno del Conformista: uno studio "freudiano" su come si manifesta un impulso omicida in progressione (la decapitazione dei fiori in giardino, la bacchetta contro la schiena delle lucertole, la fionda contJ·o un gatto in un giardino attiguo: ma, commenta il pragmatico Sir Jeremy, "come si sente che Moravia non ha mai provato a uccidere un gatto a fiondate!"). L'elegia deÌ dispatrio è l'aspetto più suggestivo di questo libro, nel quale si cerca di dare non solo una definizione accettabile dell'idea platonica di "dispat1io", indifferentemente indagando in Shakespeare e nell' aneddottica di tanti dispatriati illostri (Carlo Dionisotti, appunto, già ricordato; Arnaldo Momigliano e la sua proverbiale ruvidezza, che lo po1tava a dare del macaco, quando era il caso, persino a Ernst Gomb1ich; Fritz Sax!, "semidivino" come Frartk Stenton, non meno che l'anonimo omicida italiano, i cui guai giudiziari, Meneghello, come interprete, cercò di alleviare con metodi si direbbe più levantini che triveneti ... ma "dispatriato" nella City sarà anche l'indifendibile banchiere Calvi!, su cui per carità di patria si sorvola). Si dispatriava volentieri nelle biblioteche di Oxford e di Cambridge il piemontese spiemontizzato Franco Venturi, il grande storico del Settecento riformatore, di cui pure Meneghello ci dà un commosso profilo, che merita una chiosa: al giovane insegnante di un'università decentrata e periferica, che si lamentava della sua condizione di "isolato" ("in fondo volevo dire soltanto che mi sentivo un po' lontano dalla corrente profonda delloSpiritus Mundi"), il premuroso Venturi rispondeva perplesso: "Isolati? qui? ma perché?". "lo mi sentii", scrive Meneghello, "come Pincher Martin quando cercava certe risposte: There is no answer in your vocabulary". Dato che la conversazione si svolgeva in una delle più 1inomate biblioteche del Paese degli Angeli (così Meneghello chiama il Regno Unito), e non in una delle sfasciate biblioteche del Paese dei Balocchi (così suole invece apostJ·ofare la madrepatria), la conclusione è probabilmente affatto diversa: in quelle domande senza risposte di Ventmi vi era malcelato il rimpianto di chi avrebbe voluto, ma non volle, dispatriarsi (e di non essersi a suo tempo dispatriato, ebbe forse, chissà?, at an uncertain hour, a pentirsi). "Sono arrivato a Londra in treno, addormentato. Tutto ciò che è seguito potrebbe essere stato un lungo sogno." E ancora: "Contrapponevo la se1ietà inglese, le ristrettezze da tempo di guerra, le ptivazioni condivise e accettate come base della vita comune, alla cultura del privilegio che dominava in Italia ...". Sembrerebbe l'incipit di un libro di memorie intriso di moralismo. Non è così. Pur con i dovuti distinguo linguistici è un libro che aiuta a "capire" il nostro paese. "Un buon libro", si legge in uno degli appunti sparsi inseriti ne Il dispatrio, "dovrebbe essere uno stJ·umento per pensare. Questo mio è stralciato per prova dai materiali di una lunga ricerca che ha avuto per oggetto le cose del paese straniero dove si è svolta, ma era intesa a capire anche certe altre cose. Mi scuso di dire capire. È una parola svilita dalle nostre comunicazioni e divulgazioni di massa, in cui la fo1mula 'cerchiamo di capire' equivale a dire 'ecco il burro, spalmatelo dove sapete"'. DIARID'OSPEDALE. DAGUIBERTA MORETTI MariaNadotti "Non so se, con questo diario d'ospedale, faccio del bene o del male. Ho l'impressione che vi siano gli scrittori che fanno del bene, Hamsun, Walser, Handke, e anche paradossalmente Bernhard nella dinamica del suo genio per la scrittura, e quelli che fanno del male, Sade naturalmente, Dostoevskij? Ora preferirei appartenere alla prima categoria" (Hervé Guibert, Citomegalovirus: diario d'ospedale, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 70, L. 12.000). "In quanto sto per raccontare non c'è nulla di inventato ... Dalla malattia ho imparato due cose: la prima è che i medici sanno parlare, ma non ascoltare: la seconda è che bere un bicchierd'acquala mattina fa bene alla salute" (da Caro diario, parte III, di Nanni Moretti, I993). Citomegalovirus, di Hervé Guibert, è un libro molto piccolo. Settanta pagine formato tascabile, note incluse. Tra un appunto e l'altro tanti spazi vuoti, tante righe saltate. La degenza ospedaliera, una delle ultime ("forse oggi ho fatto conoscenza della carnera in cui morirò. Ancora non mi piace") dello scrittore, ammalato di Aids, va dal 17 settembre all'8 ottobre 1991. Tanto dura iI suo diario d'ospedale. Poi iI ritorno a casa, altri ricoveri e, nel dicembre dello stesso anno, la morte. A trentasei anni. Medici, l'episodio conclusivo di Caro diario, un film in tre parti di Nanni Moretti, copre un arco temporale di poco meno di un anno. Ed è tanto un diario di malattia quanto la tragicomica ricostruzione delle tappe che portano alla diagnosi del male e alla sua sconfitta. Pur dichiaratamente e coraggiosamente autobiografici, i due testi in questione riescono a sottrarsi con assoluta e stupefacente misura a alcuni possibili rischi, tanto comuni di questi tempi da essere diventati quasi delle cattive abitudini collettive: l'impudicizia, il sentimentalismo, l'autocommiserazione, la retorica del vittimismo, quel narcisismo della lamentazione che porta a scambiarsi per il centro del mondo e a occuparsi solo di se stessi. Negli Stati Uniti, verso gli inizi degli anni Ottanta, la si è chiamata sindrome del me generation: un'assoluta incapacità del soggetto di decentrarsi, di pensarsi come individuo storico oltre che privato, di sapersi muovere con intelligenza tra lo straordinario recupero di una soggettività di genere, sesso, etnia, origine culturale e la latitudine del sociale, del politico, dell'economico oltre che dell'etico. Il soggetto della me generation, avendo ribaltato schematicamente i termini del discorso e assunto che il mondo sia una funzione dell'individuo (reazione uguale e contraria a quell'altra abe1nzione che vuole

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