VEDERE, LEGGERE,ASCOLTARE 71 CAPIREl'ITALIA,DA LONTANO. MENEGHELLOA LONDRA Alberto Cavaglion Il dispatrio è un espatrio poetico, epurato d'ogni scoria burocratico-doganale. Può dunque avere gli stessi caratteri lirici (seppur capovolti) del suo opposto, che è il rimpatrio: la differenza sta nel fatto che l'accento della nostalgia cade più volentieri sulla patria d'adozione che sulla madrepatria. D'altra parte la storia d'Italia, passata e recente, non ci ha forse abituati ari tenere, in determinati frangenti, più dignitosa l'azione di chi se ne va, piuttosto di chi ritorna all'ovile? L'emigrato che ritorna è oggetto di buona, ma anche di cattiva letteratura. Meno si conosce del suo omologo, che, con eguale struggimento, tagliando i ponti con il passato, si allontana. Talora il "dispatrio" può diventare una catego1ia dello spirito o, si potrebbe dire con termine desueto, un canone di interpretazione storiografica che non deve essere trascurato, perché ha avuto una sua parte nella cultura del nostro paese. Luigi Meneghello (Il dispatrio, Rizzoli 1993, pp. 239, L. 20.000) forse fa il finto modesto poiché raramente ci parla dei suoi precursori. Piemontesi e spiemontizzati s'intitolava un celeberrimo articolo di un altro "dispatriato" a Londra, Carlo Dionisotti. In quel saggio si prendono in esame coloro che, nati in Piemonte, "vollero cambiar aria; e di aver cambiato non ebbero a pentirsi". "Spiemontizzati" furono Baretti, Alfieri; ansioso di "spiemontizzarsi" sarà Giacomo Debenedetti, che di quel coraggio, che mancò a Gobetti (e, in fondo, mancherà anche a Primo Levi) seppe avvalersi sia pure con proverbiali sfo1tune accademiche. Dei veneti svenetizzati, o dei lombardi slombardizzati, meno si sa. Pur rimanendo, per tutta la vita, nella adorata Pieve di Soligo nativa, Zanzotto è un "dispatriato" metaforico, tanto anagraficamente stanziale quanto è stato errabondo Meneghello, che ha coltivato una forma quasi ossessiva di pendolarismo estenuante, fra Malo e Reading (per Zanzotto e Meneghello rimane tuttavia identica la devozione al dialetto, lo stesso passato di antifascista, di insegnante e di pedagogo). C'è però qualcosa di nuovo rispetto al passato. La vena autobiografica di Meneghello, già percepibile in tutti i suoi libri precedenti, trova modo in questa ultima fatica di manifestarsi e l'impressione che l'autore di Libera nos a Malo sia qui colto en "mal" d'autobiographie è soltanto in parte temperata dalla straordinaria, quasi virtuosistica bravura linguistica e filologica (che fa di questo libro, oltre al resto, un saggio sul bilinguismo e dunque un ottimo strumento di lavoro per i traduttori dall'inglese all'italiano e viceversa). Per ciò che concerne l'ethos civile si riscoprono qui certe peculiaiità de I piccoli maestri, che in questi tempi di rivisitazione antiretorica e spregiudicata della Resistenza è un libro da rileggersi con molta attenzione. Il dispatrio racconta di un giovane, andato in Inghilterra con una borsa di studio e poi divenuto insegnante di letteratura italiana a Reading ("Io volevo soprattutto imparare, nella vita, invece mi sono trovato a insegnare"); in forma di appunti talvolta quasi Foto di Giovanni Giovannetti. diaristici rivivono incontri con uomini e donne inglesi: molte, forse troppe, "britanne vergini", di foscoliana e gaddiana memoria; altri esuli cosmopoliti, "dispatriati" anche un po' "disperati", come il "dispatriato" par excellence Giuseppe Mazzini (intorno al quale è adesso disponibile un buon profilo d'insieme, scritto da un inglese, che nel male più che nel bene, avendo compiuto l'itinerario opposto di Meneghello, rappresenta l'altra faccia del "dispatrio", quella dell'intellettuale inglese in Italia, vale a dire Denis Mack Smith, Rizzoli 1993). Da Mazzini in giùMeneghelJo pai-Jaun po' di tutti gli italiani che hanno, per una ragione o per l'altra, vai·cato la Manica. Dimentica soltanto l'anglomania di tanti cattaneani italiani, che sposarono donne inglesi (dallo stesso Cattaneo a Piero Treves) e non parla del triestino Svevo, che, soprattutto nell'epistolario ma anche nei racconti e negli articoli, ha spunti interessanti sul rapporto italobritannico, anche dal punto di vista linguistico, indipendentemente da Joyce. Al neo-docente Meneghello in fondo verrà offerta soltanto una rappresentanza di trombe acustiche per automobili; ben poca cosa rispetto alla potenza economica delle vernici della ditta Veneziani, ma forse lì si spiega come non sia trascurabile il lato mercantile nella liaison fra il Triveneto imprendit01iale e il regno del business. Meneghello, come del resto Svevo, resiste alla tentazione del commercio e persiste nello sperimentalismo linguistico, aggiungendo di suo un ritratto spietato del mondo universitai·io anglosassone, i cui vizi e virtù egli smaschera con sottile perfidia degna del miglior Lodge. Reading è un osservatorio molto particolare per giudicai·e l'intellettuale nostrano a convegno, lo scrittore italiano in temporaneo "dispatrio", vuoi per tenere una conferenza, un seminario, vuoi come semplice turista. Memorabile, in questo libro, il resoconto del soggiorno inglese di Montale (''uno zio tra bonario e, ever so slightly, compiaciuto di sé"), di cui Meneghello racconta alcune spiritosaggini sul poeta che scriveva versi "con lo stampino". A Reading giunsero anche Moravia e la Morante, il
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