Linea d'ombra - anno XII - n. 91 - marzo 1994

68 SU BOBBIO Ritengo che la nozione di virtù (come quella di vizio) sia da caratterizzare in funzione di quella di disposizione ad agire (intendo per agire tanto il fare atti commissivi, quanto il fare atti omissivi, tanto il fare, o non fare, atti materiali quanto il fare, o non fare, atti verbali e atti mentali): avere una virtù, o un vizio, comporta dunque avere una disposizione ad agire in determinati modi in certi tipi di situazione; una virtù - in quanto distinta da un vizio - è una disposizione buona o considerata come generalmente desiderabile. Non tutte le disposizioni caratterizzate come virtù sono virtù in tutti i contesti: il coraggio, ad esempio, non è una virtù quando è una qualità di un assassino, di un torturatore, di un aguzzino, più in generale di una persona estremamente prona alla violenza: è meglio che persone di questo tipo non siano coraggiose, perché se invece sono pavide fanno, probabilmente, meno danno. Anche gli animali non umani hanno disposizioni ad agire in certi modi in certi tipi di situazione: ma di essi non diciamo che sono virtuosi o viziosi. Una virtù è una certa disposizione ad agire propria di un soggetto morale, di un soggetto che si ritiene in qualche modo fornito di libero arbitrio: essa è una disposizione ad agire che può essere acquisita e l'acquisizione della quale avviene attraverso un processo educativo, ma, soprattutto, autoeducativo - è praticando la virtù che si diventa virtuosi. La virtù, così intesa, va dunque distinta non solo dagli istinti, ma anche da doti o qualità come l'intelligenza, l'affabilità, la timidezza e simili, alcune delle qual i possono essere qualità tanto di animali quanto di persone, mentre altre sono soltanto qualità di persone. Chiarito ciò, devo dire che mi trovo solo parzialmente d'accordo con le considerazioni di Bobbio circa il decadere dell'interesse, nella trattatistica morale (occidentale), per il tema della virtù a favore di quello dei doveri e dei diritti. Ciò può essere vero per quanto riguarda la filosofia morale continentale - ma non si dovrebbero dimenticare pensatori come il filosofo francese Vladimir Jankelélévitch il quale nel suo Traité des vertus (Paris 1949) si è ampiamente occupato dell'etica della virtù. Le considerazioni di Bobbio mi paiono però assi dubbie per quanto attiene alla filosofia anglo-americana, nell'ambito della quale il dibattito sull'etica della virti1 è sempre stato intenso, sia nei secoli scorsi, sia nel nostro. Tale dibattito è in notevole parte coinciso con la disputa tra i fautori dell'utilitarismo (Bentham, i due Mili, Sidgwick, G.E. Moore e altri, fino agli utilitaristi dei nostri giorni - J.J.C. Smart, R. Hare, R.B. Brandt) e i fautori di quella dottrina etica che si suole chiamare deontologismo. Questi ultimi (tanto per tenerci al nostro secolo, H.A. Rashdall, W.D. Ross, E.F. Carritt, e ai nostri giorni J.O. Urmson, Philippa Foot, P. Geach, B. Williams, W.K. Frankena) hanno spesso e variamente opposto agli utilitaristi proprio di non tenere nel dovuto conto il concetto di virtù, e nelle loro dottrine deontologiche assieme ad una lista di doveri figura spesso anche un catalogo delle virtù. Proprio per questo mi trovo, invece, pienamente d'accordo con Bobbio là dove dice che introdurre nel discorso sull'etica una contrapposizione netta tra "etica del dovere" ed "etica della virtù", significa introdurre una contrapposizione artificiale. E mi trovo altresì d'accordo con il giudizio che egli dà sul libro di A. Maclntyre, Dopo la virtù (sul quale ho svolto tutta una serie di considerazioni piuttosto critiche nella mia nota Né Nietzsche né Aristotele, in "Iride", 1989, 3, pp. 265-71). ln genere i deontologi sopra menzionati non fanno valere una siffatta contrapposizione, considerano, piuttosto, doveri e virtù come complementari; e anche in molti codici di morale positiva trovano posto sia un catalogo delle virtù sia un catalogo dei doveri. Quale esattamente sia il modo migliore per chiarire la distinzione tra il concetto di virtù e quello di dovere non è facile dire. Forse Bobbio coglie nel segno quando cerca di tracciare la distinzione in base a quella tra azioni "additate" o esaltate come esempio e azioni "prescritte", almeno se questa distinzione è da intendersi come in tutto e per tutto equivalente a quella tra azioni doverose, da una parte, e azioni supererogatorie, dall'altra: intendendo per azione supererogatoria un'azione degna di grande ammirazione, estremamente lodevole, ma tale che se un soggetto non la compie esso non è biasimevole o in qualche altro modo moralmente punibile. Non è però sicuro che questa distinzione sia sufficiente per delucidare compiutamente quella tra virtù e doveri: ciò in quanto non è affatto chiaro che tutte le diverse disposizioni le quali-sia in vari codici di morale positiva sia in vari sistemi di etica normativa elaborati dai filosofi a livello di etica teorica - sono caratterizzate come virtù, appartengano tutte alla classe dei comportamenti considerati supererogatori. Tuttavia, a prescindere dalla distinzione, che può essere importante, tra azioni doverose e azioni supererogatorie, non credo che la distinzione tra virtù da una parte, e doveri, regole o norme dall'altra, abbia una particolare importanza. Infatti, accettare un principio di dovere, una norma, una regola equivale (almeno in un senso del termine "accettare") ad avere una disposizione a fare atti di un certo tipo in un certo tipo di situazione; e, come già detto sopra, avere una certa virtù significa la stessa cosa. Così, ad esempio, accettare il principio di dovere, o la norma o la regola per cui si deve dire la verità, equivale ad avere una disposizione a fare affermazioni che si ritengono vere in situazioni in cui è in proprio potere fare affermazioni che si credono false; ma avere la virtù di essere verace è esattamente la stessa cosa. Non escluderei, quindi, la possibilità che una "etica del dovere" possa essere riscritta o riformulata come una "etica della virtù". Ciò che è importante, da un punto di vista morale, è quali disposizioni ad agire è desiderabile che la gente abbia, colti vi, sviluppi, ossia quali regole, norme, valori, è bene siano interiorizzati-e quali no. Gli utilitaristi, a cominciare soprattutto dal grande Sidgwick (di cui consiglierei di leggere il monumentale lavoro The Methods of Ethics, specie la terza e quarta parte, dove il tema della virtù è trattato prima nel contesto di una dottrina deontologica, quindi in quello di una più comprensiva dottrina utilitaristica), su questo punto hanno visto bene: non hanno mai cercato di drammatizzare la distinzione tra morale del dovere e morale della virtù, bensì si sono posti il problema di quali siano le disposizioni tali per cui una loro generale diffusione massimizza il benessere generale: se poi si chiamino virtù o obblighi o doveri è di importanza del tutto secondaria. Trovo questo discorso utilitarista assai convincente; credo anche che esso valga altrettanto bene per quelle che a volte sono chiamate "passioni". Vengo ora ai quattro momenti nei quali si articola l'argomento che ho sopra delineato. Momento 1 Non intendo invischiarmi in una questione di natura semantica, verbale, circa il significato che nel nostro linguaggio morale giornaliero i termini "mite" e "mitezza" hanno. Per far ciò in modo preciso, bisognerebbe fare delle indagini empiriche su come la gente, di regola, usa questi termini: ma non mi pare che Bobbio fondi la sua analisi del significato dei termini "mite" e "mitezza" su siffatte indagini (né sono io stesso a conoscenza di ricerche di tal tipo). Accetto, comunque, per amore dell'argomento, la caratterizzazione che Bobbio dà della mitezza, anche se non quadra del tutto con il significato che io personalmente sono incline ad assegnare a questo termine: il quale, mi pare, per Bobbio, più che non connotare una certa disposizione, connota una certa costellazione di disposizioni, nell'elogio della maggior parte delle quali mi trovo con Bobbio pienamente d'accordo (ma non, ad esempio, nell'elogio di quella caratteristica per cui il mite sarebbe "propenso a credere più alla miseria che alla grandezza dell'uomo"). La mitezza è, come scrive Bobbio, una virtù attiva? Per virtù attiva si può intendere una disposizione a fare atti commissivi di certi tipi, e per virtù passi va una disposizione ad omettere atti di certi tipi. La castità, ad esempio, è una virtù (se tale è considerata) essenzialmente passiva: consiste appunto nella disposizione a non fare atti di un certo tipo, anzi addirittura a non nutrire ce1ti desideri e a non fare certi pensieri. La compassione (o la misericordia) parrebbe invece una virtù essenzialmente attiva, una disposizione a venire attivamente in soccorso degli altri dovunque ve ne sia bisogno, anche ove ciò comporti dover fare grandi sacrifici. Ora, mi pare che la mitezza, come caratterizzata da Bobbio, sia più una virtù passiva che una virtù attiva: il mite parrebbe più una persona che tende a non fare atti di certi tipi ("non serba rancore, non è vendicativo, non ha astio, non nutre odio" e "lascia essere l'altro quello che è"), più che non una persona che tende ad intervenire attivamente. E se è così, o nella misura in cui è così, possiamo già rilevare una notevole differenza tra il mite e il nonviolento. Momento 2 La mitezza, dice Bobbio, è una vittù tipicamente propria dell'uomo privato, è del tutto fuori dalla politica: nella lotta politica i miti non hanno alcuna parte e se l'hanno è sempre quella di essere tra i vinti, gli umiliati e gli offesi. Ora, io mi chiedo, che tipo di affermazione è questa? È facile farne un truismo: basta definire la politica in modo tale per cui, per definizione, la mitezza non c'entra; per esempio dire che, per definizione, la sfera del politico è quella della volpe e del leone, della frode e della violenza. Ma in

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