Linea d'ombra - anno XII - n. 91 - marzo 1994

All'interno dell'opera di Bobbio possiamo cogliere varie linee di forza e disegnare, magari arbitrariamente, diverse costellazioni. La costellazione del "qui e ora" parte da Politica e cultura (1955) e passando per Quale socialismo? ( 1976: pensare a quali tesori di passione, intelligenza e probità intellettuale ha speso Bobbio su questo tema così fondamentale e così disgraziato in questo paese) giunge sino a Il futuro della democrazia (1984). Poi la costellazione della pace, di cui fa parte anche lo splendido saggio sulla mitezza regalato ai lettori deJla nostra rivista. La costellazione dell'Italia civile, quella storica e quella autobiografica (gli scritti su Carlo Cattaneo, il Profilo ideologico del Novecento italiano, Maestri e compagni, i ricordi della cultura torinese sotto il fascismo). Infine, i grandi pensatori con i quali Bobbio è sempre in atteggiamento di reverente polemica: Hobbes, Hegel, Gramsci. Ma se ora volessimo collocare questa nuova raccolta di saggi sugli intellettuali in una delle costellazioni che ho tracciato incontreremmo qualche difficoltà. È un libro così compromesso con l'attualità (intendendo per attualità tutto questo secolo) da non poterlo considerare uno di quei compendi filosofico-giuridici che pure Bobbio ci ha regalato. E d'altra parte vi si parla di pochissime situazioni concrete, si citano pochissimi fatti, pochi episodi, pochi nomi. Le figure più ricorrenti (Julien Benda, Max Weber, Karl Mannheim, Benedetto Croce) sembrano più emblemi di differenti maniere di considerare l'intellettuale nella storia che persone in carne e ossa, con una loro vicenda e un loro travaglio storico: e questo nonostante che a Benda sia dedicato un capitolo monografico che ne ripercorre tutta la carriera. In questo libro, insomma, si trovano ben poche tracce delle vere, grandi controversie intellettuali che hanno turbato la nostra epoca. (Di una sola tenzone ingaggiata da Bobbio sono qui raccolti i materiali, ed è significativamente una polemica a posteriori: se in Italia sia esistita o meno una cultura fascista.) A cercare un resoconto del come e perché in questi ultimi quindici anni il dibattito politico-intellettuale nel nostro paese sia disceso a livelli d'inimmaginabile bassezza, resteremmo completamente a digiuno.L'indice dei nomi apparirebbe molto breve se confrontato con quel titolo, che lascia presagire affollamenti da ora di punta. È un difetto di Bobbio questa manchevolezza? Sì e no. Bobbio è un grande cercatore (e trovatore) di precedenti. Messo di fronte a un contrasto intellettuale, a una questione che sembrerebbe di nuovo conio a un osservatore superficiale, egli ci dimostra che essa non è che la riproposizione in altre forme - quasi sempre più triviali -di dilemmi che la filosofia della politica ha posto fin dai suoi primordi: "Parlo sempre mal volentieri di novità nelle cose della politica perché là dove la memoria è corta sembra nuovo quello che è semplicemente il vecchio di cui si è perduto il ricordo". Bobbio scarnifica le controversie e vi rintraccia le costanti millenarie del dibattito intellettuale. È inutile e sbagliato chiedere a lui ciò che dovremo chiedere a un Arbasino, a un Flaiano, a Fruttero & Lucentini (tutti, peraltro, eccelsi cacciatori di precedenti). Credo che la chiave di questa manchevolezza sia nel fatto che Bobbio non è uno scrittore di costume, come quelli citati poco fa, ma è qualcosa di meno e di più: è un grande polern.ista che non fa nomi. E non ne fa non certo per mancanza di coraggio civile ma perché non si batte contro determinate persone con nome e cognome, bensì contro determinate, determinatissime correnti di pensiero. Lo spettacolo dei suoi libri, e soprattutto dei suoi artico! i sui quotidiani, che lo costringono a una concisione estrema, è la capacità di sintetizzare le idee altrui, di collocarle entro fiumane millenarie di pensiero, di tagliare via tutto il superfluo. È come se vedessimo la Battaglia di San Romano di Paolo Uccello ridisegnata e scarnificata da un KJee o da un Kandinskij. SU BOBBIO 67 Una volta capito questo, possiamo abbandonarci completamente alla lettura, spaziando dai saggi descrittivi (che cosa è stato e che cos'è l'intellettuale politico) a quelli normativi (che cosa dovrebbe essere, che cosa sarebbe opportuno che fosse) a quelli sottilmente autobiografici (le considerazioni sulla Cina e il comunismo nell'ultimo capitolo, le testimonianze dell'impegno di Bobbio in organizzazioni come la Società europea di cultura, il suo profilo che si discerne controluce dietro l'immagine dei suoi maestri). Nonostante le molte annotazioni di un realismo spesso sconfinante nella lucida disperazione ("Le ragioni sono vane e sono perfettamente inette a convincere anche il più intimo amico che abbia un diverso sistema di valori"; "Se voi m'invitaste a scommettere sulla salvezza ultima dell'umanità, non accetterei") l'impressione complessiva che il libro lascia è di una volontà pugnace, non rassegnata. Bobbio parte dal presupposto che esista una via d'uscita dal labirinto della storia. La sua è la testardaggine dei nonviolenti, quello che Carlo Levi chiamava il "coraggio dei miti": "Gli unici profeti che amo sono i profeti disarmati, soprattutto in un mondo in cui ci sono tante armi in giro e così pochi profeti". lnfine, un libro sugli intellettuali finalmente non egotista, non narcisista, privo anche di quel narcisismo capovolto che consiste nel decretare ogni cinque minuti la morte dell'intellettuale (dell'arte, della storia, del romanzo ...) e poi viverci di rendita. È un libro scritto con buonsenso, con chiarezza, con un insorgere di angoscia tenuto sempre a bada. Per questo è un libro di minoranza, ma spero che lo leggano lo stesso in molti. Forse, nel caso di Bobbio, si tratterà di quella minoranza che, per dirla con il Calvino della Giornata d'uno scrutatore, si accorge di aver perso ogni volta che crede di avere vinto. Sarà a causa di questa sconfitta che è così brutto il tempo che stiamo attraversando? ILMITEEILNONVIOLENTO. SUUN SAGGIODI BOBBIO GiulianoPontara Si consideri il seguente ragionamento: I) La mitezza è una virtù; 2) essa è una virtù che in politica non ha alcuna parte; 3) mitezza= nonviolenza; 4) ergo: la nonviolenza in politica non ha alcuna pane. Trovo questo ragionamento nel saggio di Norbe110Bobbio Elogio della mirezza, pubblicato come opuscolo accompagnante il numero di dicembre di "Linea d'ombra". In questo saggio, tutte e tre le premesse sono chiaramente enunciate. La conclusione non è invece esplicitamente tratta: Bobbio la lascia dedurre al lettore. Il ragionamento testé riassunto è formalmente ineccepibile: date le tre premesse, la conclusione segue necessariamente. Ma è un ragionamento fuorviante. Prima di chiarire le ragioni per cui lo ritengo tale, vorrei brevemente commentare il concetto di virtù, e quindi rilevare alcuni punti del discorso di Bobbio sui quali mi trovo d'accordo, o quasi.

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