Linea d'ombra - anno XII - n. 91 - marzo 1994

fia". È chiaro a questo punto che Arlacchi sta spaccando il classico capello in tre parti: c'è uno Sciascia scrittore, uno Sciascia uomo privato e uno Sciascia uomo pubblico ed intellettuale. In che cosa possa consistere (se non in una sorta di fantasma) questo intellettuale separato dall'uomo e dallo scrittore non è dato sapere. E peraltro il sistema accusatorio di Arlacchi è inficiato ab origine: egli non muove affatto dal presunto uomo pubblico, ma proprio dallo scrittore, dichiarandosi deluso dalla rilettura de Il giorno della civetta e di A ciascuno il suo. Mi chiedo (e non trovo risposte plausibili, se non del genere veterorealismosocialista) che senso abbia dare un giudizio extraletterario di opere letterarie. li fatto è che a volere separare il giudizio letterario da quello etico-politico si incorre in grotteschi qui pro quo. La narrativa ha un suo specifico statuto che non è riconducibile a valutazioni di opportunità sociale (peraltro, come vedremo, molto discutibili esse stesse). Ecco un esempio dei disguidi in cui incappa Arlacchi parlando de Il giorno della civetta: "Dei due maggiori personaggi del racconto, il capitano dei Carabinieri e il capobastone locale, è il secondo che colpisce e sovrasta". Forse Arlacchi avrebbe preferito un Mariano Arena senza nerbo, opaco, pigmeo, magari perfino ridicolo e penoso. Ammesso che una simile caratterizzazione smitizzante possa essere intesa come verace impegno civile, che cosa ne sarebbe della letteratura? Certo, facendo del "cattivo" una macchietta tutto è più chiaro, esplicito, evidente, ma è anche al tempo stesso più fuorviante, perché questo manicheismo edificante e semplificatorio non è nient'altro che feuilleton propagandistico. E la bassa letteratura non solo non dice la verità, ma oltre tutto non serve a niente. E d'altronde crede forse Arlacchi che la mafia avrebbe goduto di un tale consenso se non avesse avuto prestigio? Allo stesso modo il capitano Bellodi non può essere ridotto a un eroe fulgido e invincibile da fumetto. La forza e la bellezza del romanzo stanno proprio nella credibilità dei personaggi e nel realismo della vicenda e del contesto ambientale. Certo, i due romanzi in questione, si chiudono con la cocente sconfitta della giustizia statale, ma un "lieto fine" sarebbe stato mistificatorio, insulso, fiacco, oltre che stridentemente anacronistico. E soprattutto non avrebbe smosso le coscienze. Ciò che Arlacchi non capisce è che il pessimismo di Sciascia non è affatto in contraddizione con l'impegno civile. Sì, è vero, c'è uno scetticismo "storico" di Sciascia, ma questo non gli ha mai impedito di essere nella storia, testimoniare, scrivere e perfino, per qualche tempo, di partecipare attivamente alla vita politica. C'è più coraggio, più dignità, più valore e più verità in chi va alla battaglia portando nello zaino il peso del pessimismo della ragione. Penso anzi che un ottimismo fine a se stesso, una fiducia non fondata sulla riflessione, sia solo sonno della ragione e quindi - semmai - disimpegno incivile. Quanto alla "diffidenza costante verso lo Stato in quanto tale", che Arlacchi attribuisce a Sciascia, bisognerebbe ricordargli che essa non è necessariamente un fermarsi "giusto al confine dell'apologia" mafiosa, ma anche una delle caratteristiche basilari del pensiero liberale. "L'inglese vuole che lo Stato abbia dei limiti", scriveva Ortega y Gasset. In questi tempi in cui parecchi cialtroni fingono di riscoprire e rivalutare le mirabilie del modello socio-politico anglosassone (mitizzandolo e al tempo stesso mistificandolo), sarebbe ora che qualcuno tornasse a rileggersi i classici del liberismo, come per esempio il recentemente ripubblicato Saggio sulla libertà di John Stuart Mili, magari per restarne deluso. Ma questa è un'altra storia di cui qui è possibile solo accennare. Quella di Arlacchi è evidentemente una cultura del- )' omologazione, del conformismo. E lo rivela chiaramente quanSICILIA/MAFIA 53 do rimprovera a Sciascia di essersi autoconfinato "in una nicchia culturale e politica sempre più esasperata e minoritaria". Ma l'impegno civile non può che essere minoritario, non può che essere dissenso, protesta, controtendenza, rifiuto dell'assimilazione. L'intellettuale deve essere scomodo. Scomodo e difficile. Sciascia lo è stato, lo è tuttora (anche per me, anche adesso). È questo che rende il suo fantasma inquietante, perturbante. Si continua a rinfacciargli l'attacco ai professionisti dell'antimafia. Certo, i bersagli erano sbagliati, ma la polemica era giusta. Basti pensare a come la battaglia contro la mafia sia diventata terreno di lucrosi affari editoriali e di rampismi giornalistici. Spesso, nella storia, nobili bandiere sono state impugnate da uomini ignobili (e viceversa). L'antifascismo ieri come l'antipartitismo oggi possono fungere da cavalli di Troia adattissimi ai trasformisti e agli opportunisti dei vari gattopardi. Ma ha un'importanza relativa stabilire qui ed ora, col senno di poi, se Sciascia abbia sbagliato in tutto o in parte in quel famosoj'accuse. L'intellettuale ha in primo luogo il compito di tirare la pietra nello stagno, di far penetrare il dubbio dentro le false certezze, di creare scandalo e stupore. E soprattutto l'intellettuale ha il diritto (anzi, direi il dovere) di sbagliare. Perché se sbagliando s'impara, allora vuol dire che solo nell'errore è possibile la cultura. Arlacchi conclude quel suo articolo dicendo che gli è impossibile considerare Sciascia come un suo maestro. Si vede infatti che è un cattivo scolaro (e qui - beninteso - non valuto né il sociologo né il mafiologo, ma, per stare al suo gioco, il "terzo uomo", l'incauto polemista). A me invece piace pensare allo Sciascia maestro della scuola elementare di Regalpetra (o avrei dovuto direRecalmuto?). Un maestro che non ama la scuola, che non ama insegnare. Un piccolo maestro, schivo e appartato, come il suo piccolo giudice di Porte aperte. SICILIA/ MAFIA IDENTITÀDI SANGUE. UN LIBRODI ENRICODEAGLIO PippoDi Falco,HeidrunFriese Raccolto rosso (sottotitolo: La majza, l'Italia- e poi venne giù tutto) di Enrico Deaglio (Feltrinelli 1993, pp. 235, L. 20.000) è una cronaca degli avvenimenti di mafia degli ultimi IO anni visti attraverso l'occhio di un giornalista che "percorre un lungo viaggio in Sicilia al di là degli itinerari consueti" come dice la quarta di copertina. Completa il libro una appendice di dati e fonti. Non una vera e propria bibliografia ma una serie di indicazioni di varia provenienza. Dalla ottocentesca Inchiesta in Sicilia di Franchetti e Sonnino alle relazioni delle Commissioni antimafia succedutesi, alla presenza della mafia nei media. Non mancano "voci" quali Corleone ed una curiosa segnalazione di testi che si occupano degli aspetti psicologici, psicoanalitici e psichiatrici sul tema mafia. Ci pare di poter dire che non sia vero, come sostiene l'autore,

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