52 SICILIA/SCIASCIA sarebbe sicuramente lacunosa. Qualcuno ha rimproverato a Vassalli omissioni o inesattezze. Non mi addentro in questa subpolemica perché non sono uno storico e perché non ritengo che i I ruolo del romanziere sia quello di ricostruire gli eventi con acribia cronachistica, bensì quello di narrare. Punto e basta. Si potrebbe però obiettare che Vassalli non intendeva dirnulla di nuovo o di eclatante sui risvolti giudiziari di un delitto arcinoto, ma soltanto ricostruire un contesto storico e una vicenda emblematica che possono farci capire molte cose anche sul nostro non meno travagliato presente. Giustissimo. Ma allora qual è il senso della presunta omertosità di Sciascia? Forse che anche Sciascia non ha svolto (e meglio) un'analoga funzione? Forse che/ pugnalatori di Palermo, ad esempio, non erano altrettanto (e più) illuminanti sui rapporti ancora parzialmente inesplorati tra passato e presente, tra l'Italia post-risorgimentale e quella odierna? Le polemiche, e soprattutto le brutte polemiche, fanno male ai libri. Se li Cigno fosse apparso senza essere preceduto da una specie di infelice lancio pubblicitario (almeno culturalmente "infelice", che invece dal punto di vista commerciale credo sia stato abbastanza efficace), sarebbe stato accolto con un più genuino interesse e con più rispetto. Cioè come meritava. Il Cigno è infatti un libro di cui dobbiamo essere ricono centi a Vassalli; in primo luogo, ovviamente, in quanto lettori per la vivacità espressiva, per l'agile ritmo narrativo, per l'incisività di alcuni brani di schietto vigore rappresentativo (penso, ad esempio, all'affresco infernale, da ultima cena blasfema, del convivio mafioso, con i "liuni" e il sordido Palazzolo che emulano gli osceni Malebranche). Ma anche in quanto siciliani dobbiamo essergli grati, perché questo interesse per la nostra storia e per le nostre tragedie non può che essere una forma d'amore, di solidarietà o di riconoscimento nazionale in un momento in cui la Sicilia perde costantemente contatto con iI resto del paese e rischia di restare prigioniera di una insularità a doppio taglio. Infine (ma non per ultima), va apprezzata l'intuizione centrale del romanzo, ossia quel cancro del regionalismo che è la causa subdola di tanti mali italiani (e sottolineo-con Vassalli-italiani) di ieri e di oggi. Molto meno grati, però, gli siamo per il suo tentativo, che sa di opportunismo e millanteria, di liquidare in blocco la cultura siciliana, archiviandola con arroganza e pressappochismo insopportabili. Tuttavia li Cigno ha indiscutibilmente il pregio di avere mostrato il lato grottesco della mafia (aspetto che è anche - per la sua unilateralità semplicistica - il suo più gran difetto, non salvandosi nessuno dalla distorsione caricaturale della scrittura, tranne il solo Cri spi, sorpreso peraltro in improbabili riflessioni interiori), nonché di avere individuato nel sicilianismo uno dei volti di uno specifico carattere nazionale, quello stesso per intenderci, che anima i furori "egoisti" della Lega. In sintesi, se la polemica di Vassalli era di basso profilo, il suo libro riporta il dibattito a più alte quote. Peccato che Arlacchi lo faccia ripiombare giù. In un articolo apparso sul quotidiano "La Repubblica" (Stregato dalla mafia, 23/12/93), Arlacchi afferma che la rilettura de Il giorno della civetta e di A ciascuno il suo, cioè di quelli che per lui sono i romanzi mafiologici di Sciascia (ma ce ne sono molti altri, caro Arlacchi, che farebbe bene a "rileggere"), lo ha "deluso", non avendovi trovato traccia di impegno civile, ed anzi avendovi riscontrato "segni di qualunquismo e codardia civile". In particolare un passo è messo sotto accusa, ed è la nota finale de Il giorno della civetta in cui lo stesso Sciascia ammette con molta sincerità di non sentirsi "eroico al punto da sfidare imputazioni d'oltraggio e vilipendio", e di essersi quindi dato "a cavare" non soltanto per dare essenzialità e ritmo al racconto, ma MaxiprocessoLiggio. Fotodi PaoloTitolo/Contrasto anche per pararsi da possibili intolleranze e ritorsioni. In sostanza, dunque, Arlacchi rinfaccia a Sciascia null'altro che ciò che Sciascia rinfacciava a se stesso e sentiva il bisogno di confessare pubblicamente (e con indiscutibili coraggio e onestà morale e intellettuale). L'accusa di Arlacchi si risolve pertanto in una vilissima (questa sì) maramaldata. La sincerità di Sciascia meritava se non altro un po' di rispetto, e comunque la pubblicazione de Il giorno della civetta - che risale al 1961 - era già un atto di coraggio civile e culturale. Sfugge inoltre ad Arlacchi che Sciascia con quella posti Ila sottraeva iI suo romanzo alla sfera della pura finzione letteraria per sottolineare in modo implicito ma chiarissimo che ogni riferimento non era puramente casuale. Sul valore letterario del!' opera di Sciascia, Arlacchi (per fortuna) non osa obiettare: "Non avevo inteso mettere in discussione il valore eterno dello Sciascia scrittore, ma esprimere un dubbio sulla consistenza e sulla qualità del suo impegno antimafia". Salvato lo scrittore, Arlacchi provvede a escludere dalla contesa anche l'uomo per così dire privato: "Non ho niente da dire e niente ho detto, sulla qualità artistica della narrativa di Sciascia, né sulla sua vigliaccheria o il suo coraggio personali". Chi resta quindi sul banco degli imputati? "Ho inteso parlare - scrive ancora Arlacchi - di Leonardo Sciascia come uomo pubblico ed intellettuale impegnato su temi di notevole rilievo, tra cui la mafia e l'antima-
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