Linea d'ombra - anno XII - n. 91 - marzo 1994

48 PALERMO/MUSICA Rakali a suonare con loro e lo stesso è accaduto a un musicista come Dario Compagna che è di formazione classica e oggi suona il clarinetto nello Zephir Ensemble. Il sic iliano, insomma, ce l'ha questa tendenza alla contaminazione, e anche molto forte. Il fatto è che spesso il confine è legato solo alla testa della gente. E allora basta che si incontrino le persone giuste per fare accadere cose che sembrerebbero irrealizzabili. Molti insistono su un'identità musicale di Palermo. Esiste davvero? Si potrebbe rispondere di no. Ed essere molto duri e molto acidi. Molti fanno così. Ma io non sono d'accordo. Perché anche se è vero che a Palermo non vi sono delle realtà collettive importanti come quelle che ci sono a Napoli, direi che alcune realtà, seppure isolate, sono assai interessanti. E poi ci sono musicisti che pur non essendosi mai parlati hanno navigato su binari di espressione musicale molto simili. Il che vuol dire che un substrato, magari solo psicologico, ci deve essere. E questo è, a mio parere, un fatto di grande importanza. Mi pare che ci sia, insomma, un folclore reale e un folclore immaginario e che si possa parlare di una sorta di etno-jazz siciliano. Ci sono tanti musicisti che, anche separatamente, hanno avuto, ognuno con il proprio gusto e con la propria tecnica, un percorso comune. Cominciò in anni che sembrano lontanissimi Claudio Lo Cascio, che teorizzò e poi mise in pratica degli esperimenti di folk-jazz: e la cosa era talmente avanti con i tempi che Polillo e la critica italiana lo stroncarono senza pietà, al punto da costringerlo a mollare questo tipo di ricerca. Lo Cascio in effetti l'idea non se l'era inventata di sana pianta: essendo un uomo di cultura abbastanza globale nel campo del jazz sapeva benissimo che proprio in quel periodo nei paesi dell'Est si faceva un'operazione di questo tipo. E lui era stato lì, aveva avuto contatti importanti e aveva in un certo senso importato quelle esperienze che per noi erano di frontiera. Dico questo per sottolineare che tante cose non sono nate dieci anni fa ma sono nate molto prima anche in Italia. La Sicilia ha avuto delle realtà che per moltissimi motivi hanno stentato ad uscire fuori. E anche oggi ci sono tante tendenze espressive di grande qualità che devono ancora venire fuori. Dunque, c'è o non c'è una sicilianità nell'espressione musicale? Dire che c'è. Non è molto forte, non è molto evidente ... Ma perché dovrebbe esserlo? Io stesso ho fatto, anni fa, dei lavori in cui il riferimento alla Sicilia era molto figurativo, ma questo poi è diventato un fatto elettivo, da cercare tra le righe, molto astratto. Il fatto è che si tratta comunque di musicisti e compositori che operano in questa realtà. E questo già mi pare un fatto che crea una discriminante. Torniamo al rock. Quanto danno ha fatto a Palermo la mancanza di una cultura rock? A livello musicale il danno non è stato grandissimo. Ma la città ha perso molto. Perché il rock, e di conseguenza lo sviluppo di certe forme di aggregazione giovanile, ha una grande capacità di sprovincializzare. Il rock è come una vecchia puttana: è una cosa che fa piazza pulita di vecchi pizzi e merletti. Intanto per lo stesso fatto di essere una cultura del rumore, del riferimento erotico sessuale. Ma soprattutto perché è un grande fenomeno sociale, e come tale avrebbe condizionato la crescita della città anche perché avrebbe offerto l'opportunità di spazi per stare insieme. Tolto il calcio, a quale altro grande fenomeno di massa possiamo pensare? Il problema è che a Palermo non è stato tollerato neanche il rischio della scazzottata tra ragazzi, un piccolo prezzo sociale da pagare e che tutte le grandi metropoli hanno accettato. A Palermo ci sono stati, invece, solo fenomeni di programmazione rock sotto strutture di tipo jazzistico; anche con degli ottimi risultati. Ma sono stati fenomeni sporadici. Parliamo di soldi. Visto che unflusso di miliardi arriva dalla Regione a chi organizza e viene quasi esclusivamente impiegato per le attività di importazione piuttosto che per la produzione, quanto brucia ad un musicista che ha deciso di vivere a Palermo una politica della spesa di questo tipo? Qui si impone una precisazione. Io non sono assolutamente un teorico dell'assistenzialismo. Nel senso che secondo me l'arte non deve necessariamente essere assistita, diversamente da quello che invece purtroppo dicono in molti. Io penso che sia un'attività che non ha niente a che vedere con quella degli operai di una fabbrica. E questo lo dico duramente, perché è una cosa che ancora oggi molti operatori culturali non vogliono capire. L'arte è un'attività che non ha le caratteristiche della altre attività lavorative e dunque credo che si debbano mettere definitivamente da parte i discorsi di sindacalismo esasperato e di assistenzialismo. Voglio dire che se in Italia, improvvisamerte, fossero venuti meno i finanziamenti solo un artista su dieci sarebbe sopravvissuto. E lo dico perché ci sono persone che sono nate, sono cresciute e si sono arricchite solo grazie alle sovvenzioni; persone che se non fossero esistiti i finanziamenti• avrebbero fatto i venditori di macchine o qualsiasi altro tipo di lavoro. Non lo dico con disprezzo ma questo è davvero il problema. Purtroppo grazie ad una logica quasi edipica dell'assistenzialismo, in Italia ed in Sicilia si è creata una situazione gravissima: si è arrivati ad una tale falsità e a una tale lotta per il potere e il finanziamento che siamo al punto che chi ha successo è considerato uno che il successo se l'è comprato. Ed è vero che tanti il successo se lo sono creato solo grazie all'assistenzialismo dello Stato. Detto questo, però, visto che l'Italia ha basato sull'assistenzialismo la gran parte delle sue attività è giusto affrontare il problema. Il fatto in sé è bruciante perché tutto questo in Italia ha creato delle situazioni incredibili. Prendiamo l'esempio del jazz. Si è creato un flusso pazzesco di denaro verso l'America, per cui anche l'ultimo mediocre musicista americano (e se era nero, meglio) si è arricchito lasciando nella totale abiezione i jazzisti europei e italiani, già massacrati da leggi terribili. Questa è la cosa grave: che i soldi sono andati quasi tutti verso l'America in maniera immonda. Mentre i grandi geni della musica jazz europea non sono stati considerati per nulla. E allora, brucia, certo che brucia. Perché se uno poi va a vedere quanti soldi sono stati spesi e come sono stati spesi, rimane allibito. E finisce che anche uno come me che non ha mai preteso di avere, nel momento in cui alza questo velo che ha coperto tutto, si accorge che il problema è incredibilmente grave. Perché anche se qualcosa si è fatto per le realtà locali è davvero ancora quasi nulla rispetto a quello che si sarebbe dovuto fare. Anche perché molte leggi sono state fatte ad uso e consumo degli stessi che le ispiravano: una macchina perfetta, un meccanismo che per anni ha fatto sì che nessuno potesse accedere alle sovvenzioni. E tutto questo è assai grave. Perché chi, come me, ha voluto proporre qualcosa l'ha dovuto fare con i propri soldi e sempre in perdita. Riconoscendosi così poco nelle istituzioni da preferire l'ipotesi di rimetterci piuttosto che quella di entrare in un meccanismo istituzionale così perverso e malato.

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==