Linea d'ombra - anno XII - n. 91 - marzo 1994

30 PALERMO/STORIE presi per i capelli e cominciai a sbattergli la testa contro il muro. Ma anche stavolta, alla vista del primo sangue, diminuii subito la fu1ia dei colpi, fino a cessare del tutto. Mi decisi quindi ad estrarre un temperino che portavo in tasca. Ma non riuscii a colpirlo che di striscio e in punti non vitali. Sei un codardo, mi dicevo, fatti forza. Ma non era paura la mia, né mera incapacità fisica, tecnica, per così dire. Non è che fossi inorridito dal sangue, né raggelato dal suo dolore e dai suoi gemiti sempre più flebili. Era che proprio non ce la facevo ad ucciderlo. Non ero capace di uccidere. In qualunque momento avrei potuto dargli il colpo di grazia. Quell'uomo non era ormai che un sacco vuoto che chiunque poteva scalciare e trafiggere e massacrare a piacimento. Ma io no, io proprio non potevo. E dovevo anzi trattenermi dal soccon-erlo. Perché questo mi veniva spontaneo: dargli aiuto, caricarlo in macchina e portarlo di corsa all'ospedale, bendargli le ferite, arrestare quel sangue che scolava per terra sulle basole lerce. E mentre gli davo gli ultimi deboli colpi ero invaso da una grande pietà per lui. Allora capii che non sarei mai stato un assassino. Che io non ero della stirpe di Caino. E scappai piangendo. Non so se quell'uomo morì. Credo di no. Mi è sembrato di vederlo qualche volta ad un semaforo. D'altronde non gli infersi nessuna ferita che potesse dirsi grave. Morì invece in me l'essere malvagio che volevo diventare. Non sono nato per essere malvagio. Questo ho infine scoperto. Sì, è vero, posso fare molte cose biasimevoli e pe1fino ributtanti, ma non so essere cattivo fino in fondo. E se non posso esserlo nell'intimo, nella radice del mio io, vuol dire che io non appartengo al male, sono fatto d'un'altra creta. Ecco, questo è il punto: di che creta sono fatti gli uomini? Mi illudevo che il male fosse semplice, facile, istintivo. E invece è . altrettanto difficile, duro, impervio del bene. Per l'uno e per l'altro occoITe un grande sforzo di volontà: Gli uomini in genere sono eticamente mediocti, sono composti di una mota piena di detriti diversi. Talvolta sono buoni, altre volte-le più-sono spregevoli e disonesti. Ma l'atto morale e quello immorale - intendo quelli davvero giusti o davvero ingiusti - costano loro uguale fatica. Non esiste alcuna vocazione al male. Tutto il male del mondo è quello che abbiamo deciso di compiere e abbiamo portato a termine con deliberataestrenuadeterminazione.Possiamofaremillecanagliate, mal' orrore ce lo dobbiamo guadagnare sul campo col sudore della nostra fronte iniqua. E allora sapete cosa ho deciso? Che siccome non ho abbastanza forza e abbastanza volontà né per perseguire il bene né per votarmi al male, allora cercherò di non far nulla, di vivere in una assoluta inattività. Dedicarmi alla contemplazione non so neppure, ma posso almeno mettere da parte ogni occupazione, ogni preoccupazione, ogni aspetto pratico dell'esistenza e lasciarmi vivere come una cosa inutile posata in un angolo, dimenticata da tutti. Perciò mi sono ritirato in questa montagna brulla e desolata, in quest'eremo separato dal mondo. Cosa faccio? Niente, l'ho già detto. Conto le albe e i tramonti. Guardo le nuvole, talvolta. E vivo di quasi niente. Mangio per lo più cicoria e altre verdure selvatiche. D'altronde chi vive di niente non ha bisogno di niente. Om1ai, anzi, ho bisogno del niente. Nella mia vita non c'è più nulla, non c'è più nessuno. Qualche volta, di sera, viene a trovanni un uomo con gli occhiali a pince-nez che mi sembra d'aver visto da qualche parte nella mia vita precedente. Sta davanti al mio fuoco e parla di cose strane che io non capisco. Filosofia, suppongo. Poi se ne va senza mai salutare. Mi lascia libri che non leggo. Non è antipatico; a suo modo è gentile, mi regala delle caciotte. Non riesco mai a parlargli. Non saprei cosa dire. Però mi fa compagnia, e quando non viene mi dispiace. Forse non dovrei. Ma non mi sono ancora liberato dalla noia. E passo il mio GRIDA CinziaCollura Era il ventidue di Settembre ed a giorni sarebbe iniziata la scuola. ,.·, Paolo passò da casa mia di buon mattino, "andiamo a mare" mi disse, "prendi la maschera". La maschera era di mio fratello Giuseppe, io la presi lo stesso e non dissi niente a nessuno. "Andiamo in bici" disse ancora Paolo, ed anche la bicicletta era di mio fratello Giuseppe. Ed io la presi, abbassai il sellino ed il manubrio di una decina di centimetri e mi ci arrampicai sopra. Fortunatamente il mare era proprio vicino casa mia, cosicché mia madre mi diede il permesso e mi raccomandò soltanto di fare attenzione. "Fai attenzione alla bicicletta. Fai attenzione alle automobili in strada. Fai attenzione al mare. Fai attenzione a non allontanarti più di tanto dalla riva". E, per questa ultima raccomandazione, mimò con un gesto delle braccia la distanza che avrei dovuto mantenere dagli scogli. Arrivammo in riva al mare neppure dieci minuti più tardi. Per dieci minuti rimasi ben attenta in bilico sul sellino, feci attenzione al la strada, alle automobili e calcolai quante bracciate avrei potuto fare per non peccare di disattenzione. Paolo lasciò la bicicletta in equilibrio tra due rocce, io l'adagiai per terra e lo raggiunsi sul bagnasciuga tenendo ben stretta la maschera da sub di mio fratello Giuseppe. "Ti deve stare enorme" disse Paolo sorridendo e, con fare da esperto mi fece cenno di passargli la maschera. Io gliela passai fiduciosa e, mentre lui accovacciato in riva al mare, stringeva l'elastico da entrambi i lati della maschera, io rimasi in estasi davanti a quello specchio d'aGqua immobile. "Chissà perché luccica" pensai, e lo dissi senza neppure accorgermene. . "Dipende dalla posizione del sole" rispose lui, ed in quel momento aveva l'elastico tra i denti. Sebbene fossimo svegli già da un pezzo, erano ancora le prime ore della mattina ed un silenzio gravido di magia pendeva leggero dal cielo e sfiorava cauto la superfice del mare. "Senti che silenzio?" Domandai ancora. E Paolo era arrivato ad un punto talmente delicato dell'operazione che non poté rispondermi, fece soltanto un cenno d'assenso con il capo. Seguitai a guardarmi intorno ed immaginai fosse silenzio e magia dappertutto, a casa mia, per le strade, nel negozio del padre di Paolo e addirittura tra le pareti della scuola. Era strano che un'atmosfera come quella fosse circoscritta al solo sguardo mio e di Paolo. "È così che immagino la vita nello spazio" dissi a Paolo. E m'accorsi di guardarlo come fosse una divinità. Paolo aveva appena compiuto tredici anni, io ne avevo otto. In quello sguardo, se qualcuno fosse riuscito a bloccarlo con una

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