Linea d'ombra - anno XII - n. 91 - marzo 1994

mani si presero la libertà di rubare a mia insaputa alcuni oggetti, peraltro di vilissimo valore. Sorpreso dai commessi fui trascinato in Direzione e trattenuto fino all'arrivo della polizia. Me la cavai con una lavata di capo, ma da allora dovetti recarmi altrove per fare la spesa. Questi episodi di cleptomania mi inducevano ad alcune riflessioni: in quanto manifestazioni inconscie potevano ritenersi veramente malvage? O proprio perché patologiche e involontarie dovevano reputarsi perdonabili e addirittura incolpevoli? E se invece come rivelazioni dell'intimo nostro essere fossero da considerare come l'affiorare del nostro cuore oscuro? La faccenda era piuttosto intricata. Ma era l'aspetto pratico a darmi più problemi. Rubare deliberatamente è infatti un'attività conveniente ed entro certi limiti abbastanza sicura. Ma rubare d'istinto, per inconsulto trasporto dei sensi, per riflesso meccanico e incontrollato, è invece avventura rischiosissima, vero e proprio azzardo che espone a ritorsioni di sproporzionata virulenza. Davanti ai grandi furti che avvengono con discrezione nel segreto delle alte sfere si è di solito disposti a chiudere un occhio e ad usare una certa accondiscendenza. Chi non farebbe altrettanto, ci si dice, chi saprebbe resistere alla tentazione, chi sarebbe tanto fesso da non approfittarne? Ma quando ci s'imbatte nel ladruncolo, quando si scopre il furtarello, lo sdegno è come moltiplicato dallo squallore dell' impresa: alla riprovazione morale si aggiunge il disprezzo per la pochezza del bottino. Rubare poco, per il senso comune, è quasi più meschino che essere onesti. Se solo gli sciocchi rispettano le leggi, non è certo da furbi infrangerle per robetta di poco conto che qualunque morto di fame potrebbe lecitamente acquistare di tasca propria. Dopo le mani fu la volta della lingua a insorgere e a dichiarare la propria secessione. Improvvisamente sbucava tra le labbra per fare le boccacce alla gente, per sputacchiare e spernacchiare, per leccare il gelato dei bambini, per farmi dire segreti inconfessabili e cose sconvenienti, spropositi e turpiloqui, bestemmie e stupidaggini. Ormai nessuno voleva avere a che fare con me. Ero un rifiuto, un'immondizia, un escremento di cane su cui evitare di posare la suola. Un paria da confinare in un ghetto. Sentivo che il male mi cresceva dentro come un cancro: ormai ero pronto al delitto supremo, e l'omicidio mi sembrava l'unico modo per salvarmi dalla mia putrescenza. Sì, lacolpadi Caino era l'unica che poteva liberare la mia anima buia. Ma chi dovevo immolare? Chi sacrificare sul mio tetro altare? E come poi? In che modo, quando, dove, con che arma? Si fa presto a dirlo, ma uccidere un uomo non è un'impresa da poco. Anche in questo campo è preferibile operare all'ingrosso: una strage è sempre più facile e redditizia. Non so se avete notato che il terrorista se la cava sempre meglio. C'è una specie di rispetto religioso per i terroristi. Se un povero cristo in un momento di follia fa fuori un disgraziato che magari se lo meritava, la Giustizia è inflessibile. Ma se c'è di mezzo l'ideologia e soprattutto se si tratta di grandi numeri, allora si può star certi che l'esecrazione, a parole, sarà massima, ma la condanna, all'atto pratico, mitissima. Per il terrorista il perdono collettivo è affare certo e mai tardivo. Uccidere parecchia gente significa infatti sopprimere una certa quantità. L'individuo invece è una precisa qualità, un uomo o una donna che ha un nome e ha un volto. Tuttavia, mettere una bomba in un luogo affollato e stare ad aspettare il macello non mi avrebbe consentito di ritenere la prova effettivamente superata. Occorreva che io uccidessi con le mie mani, faccia a faccia con la mia vittima, senza frapporre nulla, né tempo né mezzi, fra me e il mio compito. Su questo non avevo dubbi, dovevo far tutto da me, PALERMO/STORIE 29 personalmente, materialmente, dovevo assistere al trapasso, lordarmi di sangue, sentire il corpo freddo, esanime del mio rivale, vederlo afflosciato ai miei piedi. Si trattava soltanto, a questo punto, di scegliere la persona giusta. Dilemma di non poco conto, certo, ma al quale mi dedicai subito in modo metodico e appassionato: anima e corpo. Vagliai un gran numero di uomini e di donne. Scartai immediatamente parenti e amici, non tanto per uno scrupolo morale, ma piuttosto per evitare che fosse possibile collegarmi in qualche modo al delitto. Per la stessa ragione depennai dalla lista colleghi (anche se più d'uno l'avrei fatto fuori con piacere), vicini di casa, conoscenti e persone con cui intrattenevo rapporti consueti. In parole povere, non mi restava che affidarmi al caso. Come sempre mi vennero in aiuto i bambini (gran consiglieri scellerati). Un pomeriggio, attraversando un quartiere suburbano, scorsi un gruppo di teppistelli che stava prendendo a sassate un malconcio barbone.Gli adolescenti1' avrete notato - odiano i mendicanti e i diseredati, proprio come i cani (con i quali hanno molti punti in comune). La ragione non è né psicologica né sociologica. È soltanto che sono scanzonatamente infami. Ma non è di questo che dobbiamo discutere. Torniamo a noi. Ecco quello che ci vuole, pensai. Uno di questi diseredati che non hanno nessuno al mondo e che nessuno piangerà o cercherà. Ebbi una specie di illuminazione. Dico così solo perché così in genere si dice, ma in realtà mi calò sugli occhi e sulla mente piuttosto un buio, una specie di blackout, un sipario nero e pesante che mi rivelò in un sussurro gelido l'identità della mia vittima. Ma sì, certo, avrei ammazzato quell'extracomunitario che unavolta m'era sfuggito tra i vicoli impenetrabili della città negra. Era deciso. Senza appello. Pensai che uccidere quel maledetto marocchino lavavetri fosse la cosa più giusta e più ovvia. Trovarlo però era un'impresa. Dopo che l'avevo pedinato, s'era trasferito in un'altra zona. Non potevo certo fare il giro di tutti i semafori della città. Girai molto. Battei tutte le zone più frequentate dagli immigrati. Ma niente. Sembrava essersi volatilizzato. Ci voleva un colpo di fortuna. E la fortuna, infatti, mi arrise. Perché la fortuna, sapete, arride sempre agli iniqui. Lo vidi una notte, coricato in una panchina, coperto soltanto da un paio di giornali. Era solo e probabilmente era ubriaco. Lo capii perché puzzava schifosamente di alcol. Puzzava più di me. Puzzava tanto che a un certo punto temetti che fosse morto. Invece calandomi su di lui mi accorsi che respirava in modo affannoso, come se avesse la febbre o stesse sognando qualcosa di angoscioso. Chissà, forse sognava che qualcuno lo inseguiva per ucciderlo, e ansimava nella fuga. Mi faceva così ribrezzo che non osavo toccarlo. Allora gli sferrai un calcio nell'addome. Poi mentre si contorceva per il dolore che lo aveva strappato al suo sonno penoso, lo acchiappai per il bavero della sua misera giacca e lo trascinai in un angolo buio lì vicino, al riparo di un cassonetto dell'immondizia. Non oppose quasi nessuna resistenza, si limitò ad aggrapparsi ai miei abiti. Me lo scrollai di dosso con una ginocchiata e poi lo tempestai di colpi con un manico di scopa che avevo recuperato tra i rifiuti. Sorridevo all'idea di usare una ramazza per sopprimere quel rifiuto sociale. Ad opera ultimata avrei gettato il cadavere nel cassonetto. Una buona opera di pulizia. Ma mi accorgevo che istintivamente evitavo di colpirlo alla testa. Anzi, a dire il vero, le bastonate partivano vigorose, ma giunte quasi a bersaglio si smorzavano. Il mio braccio si tratteneva, sicché i colpi arrivavano affievoliti. A un certo punto gettai via il bastone e gli strinsi la gola tra le mie mani. lo volevo strangolarlo, era questa la mia intenzione, ma non ce la facevo. Non appena notavo che il respiro era strozzato, ecco che subito allentavo la morsa e gli facevo rimprender fiato. Allora lo

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