28 PALERMO/STORIE gliendo di sicuro cifre considerevoli per le quali non svolgeva alcuna funzione. Io perlomeno rubavo a mio rischio, ma questo suo insolente e noioso parassitismo mi rendeva furibondo. La tentazione di scendere dalla macchina e picchiarlo diventava ogni giorno più insopprimibile. Ma davanti a testimoni non si poteva certo, né d'altra parte sarebbe stato tanto facile, giacché era sempre in compagnia di un folto numero di zingari ed extracomunitari intenti a vendere cianfrusaglie inutili ai malcapitati costretti ad attendere la liberazione del verde. Così una sera posteggiai non molto distante dal l'incrocio e attesi che smontasse dal la sua postazione. Lo pedinai fin sotto casa in un quartiere fatiscente del centro storico. I vicoli erano bui e desolati; a stento la mia grossa automobile (appena acquistata con le mie prime bustarelle) vi passava sfiorando i muri incancreniti. Con un po' di fortuna avrei potuto arrotarlo, ma ad ogni buon conto m'ero portato appresso un grosso bastone con cui speravo di potergli spaccare quella testa di moro riccioluta e pidocchiosa. Forse si accorse che lo seguivo; fatto sta che accelerò improvvisamente il passo e svoltò di fretta in una strettoia non percorribile in macchina. Feci allora il giro largo per sbucargli di fronte, ma giunto in piazza mi vidi attorniato da un gran numero di immigrati. Sembrava un'altra città, una città del terzo mondo (anzi dell'altro, ché quelle ombre che passavano silenziose parevano anime in pena). Tutt'intorno non c'erano che negri ed arabi. Anche ad intestardirsi nella ricerca, non ero più sicuro di saper riconoscere il mio uomo. Vero è che uno o l'altro non cambiava poi molto, ma la mia situazione non era più molto vantaggiosa: mi trovavo in un territorio ostile, poco noto e malsicuro. Decisi che era senz'altro meglio ritirarsi, ma la delusione era bruciante. Una rabbia incontenibile mi montava dentro. Avevo tanto odio in corpo che facilmente avrei potuto compiere una strage. Potete quindi immaginare con quanta soddisfazione appresi l'indomani che era sorto in città un comitato che esigeva dalle autorità la cacciata di tutti gli immigrati abusivi (ma lasciando intendere che ogni immigrato è di per sé un abusivo) e minacciava di ricorrere al le maniere forti se i I suo appello venisse disatteso dagli organi competenti. Aderii con entusiasmo al comitato e fui tra i sostenitori più accesi di un raid contro alcuni vucumprà che si erano sistemati sotto i portici del corso principale. Tutta la loro merce, esposta per terra su alcuni lenzuoli colorati, andò distrutta, ed anche loro si buscarono un bel po' di legnate prima che la polizia ci disperdesse con un paio di lacrimogeni. Ridevo e piangevo scappando lontano dal luogo dell' aggressione. Ero abbastanza soddisfatto di quel linciaggio a metà. Avevo piazzato qualche buon colpo col mio bastone, e a prova di ciò avevo l'impermeabile schizzato di sangue negro. Ma l'assalto non era durato che un paio di minuti. Troppo poco per tutto il rancore che mi covavo dentro e tutto quel bisogno che mi urgeva di fare male quanto più era possipile. In fondo, poi, s'era trattato di uno scontro se non leale, vista la sproporzione numerica delle parti, almeno un po' rischioso. Gli immigrati possedevano qualche coltello con cui avevano tentato di difendersi. Insomma, c'era stata una piccola battaglia; l'azione non era poi così vile, visto che ci si era messa di mezzo anche la polizia. Tutto ciò sminuiva indubbiamente la valenza maligna dell'episodio. Ancora una volta mi trovavo ad agognare un gesto supremamente e inequivocabilmente esecrabile. La mia prova d'esame, il mio capolavoro, l'atto finale di un apprendistato che mi iniziasse ad un livello superiore di perfidia con il quale speravo di conseguire il più pieno successo personale. Intuivo che se non avessi al più presto conseguito dei progressi, sarei fatalmente decaduto. Le cose infatti non andavano più per il meglio. All'ascesa iniziale, che mi aveva visto affermare prepotentemente in ogni campo della vita sociale e del mio stesso benessere fisico e psichico, era subentrata una fase di stasi e quindi un periodo di lento declino. Si trattava ancora di piccoli segnali di poca rilevanza, ma inequivocabili, che io attribuivo a una mia scarsa costanza e ad una inadeguata incisività nel perseguire il male. Cominciai a perdere buona parte del mio ascendente presso le donne e della mia autorità nei confronti dei colleghi, tanto i subalterni che i superiori. La cosa coincise con uno spiacevole disturbo intestinale che mi causava un imbarazzante alito cattivo. Non appena aprivo bocca, anche solo per dire ciao, la gente si allontanava da me con disgusto. Il dentista mi disse che il cavo orale non presentava carie né affezioni di sorta e che quindi la causa andava probabilmente ricercata in disturbi dell'apparato digerente. Mi prescrisse comunque un collutorio disinfettante. E tuttavia la bocca continuava a puzzarmi maledettamente, creandomi un comprensibile disagio. Forse in conseguenza di questa sgradevole situazione, la mia sudorazione aumentò a dismisura. Ovviamente una così copiosa traspirazione rendeva la mia persona ancora più maleolente e ributtante. Come se tutto ciò non bastasse ancora, fui soggetto ad una aerofagia mortificante. Il rumore e il puzzo delle mie scorregge mi crearono letteralmente il vuoto intorno. In breve divenni un isolato. Tutti mi evitavano e ridevano alle mie spalle. Mi chiamavano puzzola, fetido, cloaca, pattume e con mille altri soprannomi ributtanti. Nessuno osava più parlarmi, dato che lamia bocca guasta appestava l'aria a due metri di distanza. Il mio tanfo mi precedeva e causava un fuggi fuggi generale. A teatro fui rimproverato per un paio di sonore pernacchie che non riuscii a trattenere. Dovetti scappare, rosso per la vergogna. Non c'era ambiente che non ammorbassi con i miei peti incontrollabili, gli acidi rutti e i miasmi del mio sudore. Mi confinarono in una stanza appartata. Inutilmente mi accanivo in una cura maniacale della mia igiene. Mi inondavo di profumi e deodoranti, masticavo continuamente pasticche balsamiche, cambiavo la biancheria sei volte al giorno, stavo dentro la vasca da bagno, satura di sali aromatici, finché le carni non mi sirammollivanoe lelabbradiventavanoviola. Ma tutto era vano, non c'era opera di pulizia o prodotto cosmetico che potesse soffocare quel mio fetore osceno che sembrava scaturire da un marciume delle viscere. Puzzavo irreparabilmente come una fogna. E più puzzavo e più mi incarognivo. O viceversa. Era come se le regioni profonde del mio organismo mi insorgessero contro e si rifiutassero tenacemente di essere lo strumento della mia affermazione nel mondo. Ma la rivolta del mio corpo sembrava non doversi esaurire alle semplici emanazioni. Notai che la mano sinistra sempre più spesso agiva per conto suo, senza che io la potessi controllare. D'improvviso il medio e l'anulare si ritraevano lasciando che il mignolo e l'indice restassero a rappresentare l'ingiuria delle corna. Più d'uno, credendo che volessi offenderlo, mi prese a ceffoni. La mano destra si specializzò in altri gestacci osceni che mi procurarono analoghi incidenti. Resesi indipendenti le mie mani scattavano improvvisamente, con anarchico furore sensuale, a palpare tette e natiche delle donne per strada o sull'autobus. L'involontarietà e la furtività del gesto mi rendevano ancora più abietto e volgare agli occhi delle molestate, le quali reagivano a colpi di sporta e di ombrello, rivolgendomi epiteti non certo lusinghieri che facilmente potete immaginare.L'avessi fatto apposta, fossi stato cioè un porco intenzionale, me la sarei cavata con successo due volte su tre, ad e_sserepessimisti. Ma a fregarmi era soprattutto il cattivo odore che irradiavo, l'alone mefitico di cui ero laidamente circonfuso. Chi avrebbe mai sopportato d'essere sfiorato da un simi le afrore di sco I o putrido, di carne frollata, di decomposizione organica, di tombino e di tomba? 11mio era un tocco di cadavere, un alito di bolgia. Ma la cosa più incresciosa fu quando in un supermercato le mie
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