Linea d'ombra - anno XII - n. 91 - marzo 1994

sicuro e spedito. Ero tuttavia ben intenzionato a non perdere ulteriore tempo e a darmi da fare nel modo più proficuo. Per prima cosa decisi dunque di tralasciare tutte le malefatte che mi recassero un qualche utile. Compiere una cattiva azione per un tornaconto persona( e mi sembra va infatti una cosa ancora in qualche modo legata alla morale, al buon senso. Il fine, si sa, giustifica i mezzi e in un certo qual senso li nobilita, li assolve, li redime. L'egoismo di per sé non è un'autentica garanzia di cattiveria. Ogni cattiveria, è vero, nasce dall'egoismo, ma poi per realizzarsi appieno deve superare questo primo stadio così razionale, logico, comprensibile. Il vero male dev'essere superegoistico, una sorta di altruismo rovesciato, un godimento della sciagura del prossimo, della tragedia universale. Occorreva dunque qualcosa di insano e di insensato, di demenzialmenteignobile, una malvagità assolutamente gratuita. Ancora una volta furono i bambini a suggerirmi cosa fare. Avendo incontrato un gruppo di ridicoli boy-scout, decisi su due piedi che avrei incendiato un bosco. Presi la macchina e raggiunsi la più vicina riserva naturale. Ammirai per un po' il bellissimo paesaggio prima di appiccare il fuoco ad alcuni rovi secchi. Ripetei l'operazione in vari punti e me ne andai.Dall'alto vidi le fiamme che velocemente divoravano gli alberi. Fui deluso dal constatare che l'allarme scattò molto tardi e l'intervento dei pompieri fu di una inefficacia disarmante. Tanto disinteresse ed inefficienza quasi toglieva valore al mio gesto. Mi risollevai con gli allarmati servizi dei telegiornali in cui si susseguivano gli accorati commenti degli ambientalisti. Tuttavia la soddisfazione durò poco. Finora avevo riversato il mio odio su cose inanimate o sulla Natura. A che punto potevo collocarmi nella mia nuova carriera?Ero soltanto un piccolo burocrate mariuolo e corrotto che di tanto in tanto escogitava qualche atto più o meno eclatante di vandalismo. Ma è solo la sofferenza dell'uomo ad esaltare le potenzialità malefiche che albergano in noi, quel fanciullino perverso, insediato nei recessi del Trapani Fotodi Paolo Titolo/Contrasto. PALERMO/STORIE 27 nostro animo, che gioca col dolore altrui. Il pianto di quel bambino che avevo mandato a gambe ali' aria, in quel primo liberatorio gesto insano, valeva assai più di qualsiasi somma sottratta ad un'anonima collettività, di cento boschi inceneriti,di mille cani stritolati. Dovevo far soffrire un essere umano. Solo così avrei compiuto un vero salto di qualità. In fondo però la mia vita andava a gonfie vele. Avevo migliorato la inia condizione economica e il mio prestigio sociale. Sapevo di essere affascinante e ottenevo con facilità quasi tutto ciò che desideravo (e tenete conto che i deside1i sono direttamente proporzionali all'immoralità). Quindi, fretta non ce n'era. Bisognava studiare con calma le opportunità che mi si presentavano e scegliere oculatamente la vittima più idonea. Le nostre azioni peggiori (cioè le migliori cattive azioni) sono però quasi sempre dettate da raptus improvvisi. Occorre una certa dose di rabbia per compiere il male con voluttà. È vero altresì che la malvagità razionale, fredda, calcolatrice, ha un valore qualitativo di gran lunga supe1iore, sia da un punto di vista estetico che etico (o, per meglio dire, antietico). Tuttavia il godimento dell'efferatezza ha una componente sensuale che si rivela e si esalta soprattutto nell'irruenza dell'azione improvvisa, spontanea, estemporanea. È precisamente quel che mi accadde con quel marocchino. Ogni mattina insisteva per lavarmi il parabrezza dell'auto durante l'immancabile sosta al semaforo. In realtà, con quella sua acqua lorda e quel suo lavavetri, se possibile, più lercio della sua faccia scura, non faceva che insudiciarmelo ancora di più, ricoprendolo di una patina bisunta da cui stillava un rigagnolo nero che scorreva sconciamente lungo la fiancata della vettura. Mi dava fastidio la sua insistenza quotidiana, quel suo ottuso questuare un assurdo compenso per un lavoro inutile e perfino controproducente, quel suo lamentoso non demordere chino sul finestrino chiuso, quel suo biascicare una specie di afroitaliano cantilenante ed ossessivo. Insomma, non lo sopportavo. Non sopportavo che vivesse dell'obolo, spacciato per compenso, degli automobilisti che assillava e tormentava, racco-

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