Linea d'ombra - anno XII - n. 91 - marzo 1994

gli stessi argomenti, che sanno di parrocchia. Insomma: la televisione esiste in America da molto prima che anivasse in Italia. Eci sono fior di registi, da Altman ad Abel Fenara, che hanno cominciato facendo televisione e non l'hanno mai disprezzata. Questo forse dipende dal fatto che - altrove - ci sono fior di registi, che sanno fare e fanno grande cinema per nulla asservito all'estetica televisiva, e anche grande televisione. Ce1to. Il discorso è che la tv è comunque uno strumento del tempo, che ha a che fare con le immagini. Che la televisione è, per l'appunto, un linguaggio. La scommessa è se poi un autore questo linguaggio riesce a farlo proprio, e addirittura su questo linguaggio riesce a costruirne altri, a fare se vuoi satira o parodia: comunque ad utilizzarlo. A lavorare sul tempo delle riprese o sul tempo di percezione. Il punto è che non si può demonizzare la televisione e rivendicare l'immagine pura, bella e pulita dell'estetica piccoloborghese. In un cinema come quello di Maselli o Tornato.re, ad esempio, c'è una profondità bassa, dal punto di vista culturale: un cinema noioso, mai nulla che ti sorprenda dal punto di vista del linguaggio. L'artista quando è tale, invece, riesce veramente a prendere i generi diversi e a contaminarli, a fare con la spazzatura delle cose interessanti. Qual è allora il vostro modello di televisione? Crediamo che sia possibile fare televisione come diceva Rossellini. Come la facevano altri negli anni Sessanta: i vituperati anni Sessanta. Rossellini faceva un tipo di televisione che io non condivido, ma la faceva comunque con onestà, con una forza culturale e con una preparazione straordinarie. Un modo un po' pedagogico, che era nella sua visione delJe cose e della politica. Riteneva che la televisione avesse non solo la capacità, ma l'obbligo morale di educare le masse. Altri, soprattutto all'estero, l'hanno fatto più liberamente. Sono soltanto gli stupidi e gli ipocriti oggi a sostenere che ci possa essere la televisione da una parte e dall'altra il cinema indipendente. Non puoi continuare a produ1ti e a fare cinema se non tieni conto della televisione. In ogni caso: dal punto di vista produttivo e dal punto di vista della diffusione del tuo lavoro. Non rischiate di restare prigionieri di un cliché fortemente connotato: quello che vi ha dato la notorietà, e vi consente di lavorare sulla riconoscibilità? Non avete mai vissuto con angoscia l'incubo di non riuscire a sganciarvi dalla "gabbia" di Cinico Tv e dalla cerchia chiusa dei vostri attori? Il discorso è giusto. Da un lato però c'è una nostra volontà precisa. In unarealtàe inun mondo che cambia, la1ipetitivitàe la riconoscibilità che stanno nelle nostre cose, per noi, e forse anche per qualche altro, sono effettivamente un momento di conforto. Se tutto cambia, qualche cosa almeno resta! A parte questo, sicuramente ci siamo posti il problema di cui parlavi e ce lo poniamo. Del resto sono note le cose che abbiamo fatto, e non invece quelle che nel corso del tempo abbiamo proposto. AllaRai, ad esempio, abbiamo proposto una serie di st1isce, di spazi, che costano pochissimo rispetto alle produzioni coITenti: ma non sono state accettate. Come il Controfestival di San Remo, o l'idea di un "contro-Milano Italia", una sorta di PalermoItalia con una forte componente di satira. Saremmo entrati nei quartieri, e gli abitanti sarebbero diventati protagonisti-attori, un po' come i nostri attori abituali. Un modo diverso, nella forma e nel metodo, di leggere e raccontare il Sud e Palermo. Che voi raccontate a partire da quali riferimenti culturali? Si è parlato di Beckett e di Pasolini. Può darsi. Sicuramente non li abbiamo cercati. Quello che invece ci siamo prefissi consapevolmente fin dall'inizio, è il tentativo di proporre una visionedellaSicilia PALERMO/VIDEO 21 fuori dei luoghi comuni, fuori dell'assistenzialismo, fuori dei piagnistei. L'umorismo e la satira come forma attiva di c1itica e di opposizione; di smitizzazione e di antiassistenzialismo. È questo il motivo per cui non vi identificate con altri registri siciliani, con il cinema di Scùneca e di Grimaldi? Al di là dei risultati estetici, dietro il loro cinema c'è un'idea sbagliata. Non voglio dire in malafede (e comunque, tra parentesi, un sospetto ce l'ho). Ma sicuramente c'è un'idea sbagliata. Che è appunto quella di dire: raccontiamoci ancora in questo modo, con la lacrimuccia; raccontiamo la storia recente, la nostalgia. C'è un continuo piangersi addosso, come invocando: "Bene, vedete, siamo disgraziati!". E i critici, naturalmente, rispondono: "Guardate: è un cinema del terzo mondo. Aiutiamolo, sosteniamolo, Lì non possiamo applicare gli stessi criteri che abbiamo per il cinema civile ed evoluto!". Questo è il punto. È un cinema che si basa sul semplice fatto che esiste una realtà che in questo momento va aiutata. Insomma: ancora una volta questo è assistenzialismo. E contro l'assistenzialismo voi rivendicate unfrancescanesùno integralista. La nostra proposta, estetica in primo luogo, è quella di un ritorno alla primitività, all'essenziale, in un momento in cui c'è un eccesso di teorizzazioni, di chiacchiera e di parola. Il ritorno a una realtà scarna che si racconta quasi da sola: con le facce - queste facce primitive-, con la materia e la corporalità. Sicuramente il 1ichiamo è al primo Pasolini, quello in bianco e nero. Al Pasolini delle periferie in cui c'era questa sgradevolezza: personaggi ruvidi, la ticotta, i rutti, le facce prese dalle borgate. E poi, una cosa che un po' meno involontariamente abbiamo fatto è stata quella di astra1Tedal contesto andando più su corde astratte, meno realistiche. Abbiamo cercato di raccontare la realtà attraverso un percorso che non era quello della mera denuncia, del realismo esasperato. Questo crediamo che ci vada riconosciuto. Togliere piuttosto che aggiungere, insomma. Fin dagli inizi, la nostra è stata una storia di sperimentazione povera. Di adattamento ai mezzi che avevamo, molto più poveri di quelli-non ricchi - che abbiamo adesso, facendo con poco quanto più era possibile. È vero che quando hai bisogno ti inventi delle cose. Quando hai tutto ti adagi. Un pugno di registi ai quali far raccontare Palermo con un cortometraggio? Kubrick, innanzitutto. Perché Palermo è sicuramente un tesoro per i visionari, e per Kubrick potrebbe essere un nuovo Vietnam, o uno straordinario scenario per un film di fantascienza. E poi Abel Ferrara, Quentin Tarantino: registi che farebbero dei melodrammi sanguinari, o racconterebbero una mafia in cui ci sia anche da morire dalle risate. E in Italia, chifareste lavorare con voiadunprogettodelgenere? Più difficile: fai un lavoro assieme ad altri perché ti piace, per affinità.Una persona che inviterei è Pasquale Misuraca. Poi Amelio, Mattone, Capuano. Insomma i meno retorici, i meno ridondanti. Se diventaste, o foste già diventati, un simbolo o una moda, vi farebbe rabbia non potervi più considerare brutti sporchi e cattivi, ma soprattutto negletti, come prima? Siamo lontani dai luoghi in cui si fa televisione e cinema. Lontani e periferici. Di fatto, per fortuna, non siamo mai stati molto presenti. Abbiamo rifiutato di fare troppi discorsi sulla televisione. Non andiamo ai convegni né ai dibattiti. E quindi col nostro possibile eubblico si crea una sorta di rapporto non assiduo, dunque piacevole. E la distanza che ci aiuta.

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